Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Napoli? Oggi la racconta meglio il rap
Il linguaggio critico fallisce di fronte alle interpretazioni della città. Resta la musica
La critica non può suonare sempre la stessa canzone. Non può partire da un’idea statica e ideale della cultura come feticcio. La cultura fa parte di processi storici, e quelli di Napoli hanno fatto chiaramente parte di quel rifacimento della cultura urbana e moderna in atto che forse trova una lettura più significativa nelle pratiche della musica di massa: da Nino D’Angelo e Pino Daniele a Almamegretta e Rocco Hunt.
La difficoltà che si nota quando ci si ritrova a parlare dei problemi di Napoli dovrebbe, a mio avviso, spingere ad una riflessione radicale. Dopotutto abbiamo sentito lo stesso ritornello da decenni, se non secoli, da napoletani e forestieri. Forse le questioni sono troppo scivolose e complesse da afferrare, o forse il linguaggio impiegato non è all’altezza della situazione, ma arriviamo sempre agli stessi verdetti: la città è sporca e disorganizzata, la gente è maleducata e incivile, il declino della città appare incontrollabile, Napoli è sempre in bilico tra la perdita delle sue glorie antiche o non è ancora abbastanza moderna.
Penso che le lamentele perpetue che tendono a caratterizzare la discussione politicoculturale a Napoli siano più sintomi di un linguaggio critico esaurito che di un’analisi vera e propria. Ci si continua a riferire al «popolo», a un modello Milano mancato, e a un vuoto culturale e civile che mette in evidenza la «plebeizzazione» della città ora che la sua borghesia sembra aver abbandonato il suo ruolo civilizzatore. Qui i toni, che non a caso fanno eco a quelli piemontesi e coloniali nella Napoli del 1861, registrano le insofferenze di coloro per cui la cultura è un affare da elaborare e gestire dall’alto di un assetto paternalistico, e in fin dei conti poco partecipativo e democratico. È come se si fosse ancora in uno scenario tardo settecentesco dove si sta aspettando la redenzione del 1799, che la prossima volta dovrebbe salvarci.
Ma la critica non può suonare sempre questa stessa canzone. Non può partire da un’idea statica e ideale della cultura come feticcio. La cultura fa parte di processi storici, e quelli di Napoli hanno fatto chiaramente parte di quel rifacimento della cultura urbana e moderna in atto che forse trova una lettura più significativa nelle pratiche della musica di massa (da Nino D’Angelo e Pino Daniele a Almamegretta e Rocco Hunt) che in molti dei discorsi politico-culturali che arrivano dai palazzi negli ultimi decenni.
Come possiamo cartografare, vedere e recepire la città nella sua complessità in una maniera diversa, nuova?
Come possiamo spezzare le catene di spiegazioni storiche che ci portano sempre allo stes- so punto morto? A mio avviso si dovrebbe iniziare da un dissidio elaborato attraverso il distacco dalla propria formazione storica e culturale. Questa operazione ci permette di registrare sia la specificità sia i limiti della propria formazione.
Tanto per cominciare, possiamo e dobbiamo notare che il costituzionalismo classico politico a cui si fa riferimento nello spiegare la politica e la filosofia della modernità (da Locke a Hegel) richiedeva politicamente e filosoficamente la sottomissione della gran parte del pianeta attraverso il colonialismo e l’autorizzazione morale della schiavitù razziale per realizzarsi.
Il colonialismo come punto cardinale della modernità è anche chiaramente evidente a Napoli. Lasciando da parte l’ovvietà e l’ubiquità del caffè e del pomodoro che annunciano nella quotidianità rapporti commerciali coloniali di lunga data, l’evidenza sta lì, davanti ai nostri occhi, nei linguaggi urbanistici e architettonici della città. La Stazione Marittima, la Mostra d’Oltremare, tutti gli edifici attorno a Piazza Matteotti ci parlano di una città coloniale – Napoli come porto e ingresso dell’impero, e non solamente di quello fascista, ma anche di quello liberale di Libia, Eritrea e Somalia.
Comunque il silenzio parla, emana un riverbero che si compone della violenza di storie subordinate, subalterne, negate e rifiutate, e che sono destinate a un ritorno inevitabile. Oggi stiamo vivendo l’epoca di questo ritorno. Il movimento di Black Lives Matter negli Stati Uniti e in Inghilterra riapre l’archivio della segregazione razziale e della violenza della supremazia bianca, una volta direttamente autorizzata dalla filosofia e dalla giurisdizione europea. Ma da Chiaia e Posillipo non si riescono a vedere facilmente questi orizzonti, nonostante la presenza crescente dei migranti «illegali» che portano queste storie clandestine tra di noi.
Pensavo a questi orizzonti mentre ascoltavo il dibattito perpetuo sullo stato di Napoli che si è riacceso nei mesi scorsi con le elezioni per il sindaco della città. Mettendo insieme queste due dimensioni, che non sono per niente disgiunte, ci si ritrova con una lettura della città odierna incapace di leggere i tempi che corrono. La storia della città di Napoli, anche quella intellettuale e culturale, non accade in un vuoto. Il consenso culturale richiesto in maniera gramsciana per governare e coltivare la città richiede un coinvolgimento storico, culturale e politico disposto a ripensare le premesse della propria autorità. Così le nostre convinzioni vengono messe alla prova, smontate e rielaborate per sfidare vecchi modelli di «sviluppo» e «progresso», e promuovere altri stili per ragionare di Napoli e viverla diversamente.