Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Da lassù la metropoli ha un corpo di donna
Napoli da lassù ha un corpo di donna
Ese la bellezza femminile fosse il modello, addirittura la matrice, della nostra idea di Bello? Ogni tanto l’uomo non più giovane se lo ripeteva (ed era per lui, si badi bene, una domanda retorica). Stava osservando Napoli da una visuale aerea: dalla certosa di San Martino, che domina la città senza ritegno. Con lo sguardo l’uomo trasvolava da una all’altra delle cupole sbocciate, laggiù, durante i secoli. In fondo non ricordavano i seni delle ragazze quando dormono supine o sognano distese, ad occhi aperti?
La donna che lo accompagnava – una donna possessiva, dolce, furente – gli prese il braccio, mimando il gesto di trattenerlo. Non poteva farne a meno quando quell’uomo si sdoppiava. Da una parte la mente; dall’altra il corpo abbandonato, accanto a lei, come un involucro di cellophane o una cartaccia. Lei lo odiava, in quei momenti. Sapendo bene che esisteva un unico modo per richiamarlo indietro: mettersi a raccontare la storia delle proprie storie senza concedergli tregua. Senza consentirgli di perdersi, mentalmente, chissà dove e con chi. Così la voce della donna – una seta cangiante che poteva anche mettersi a frusciare come una serpe – iniziò ad accompagnare i movimenti oculari di lui. Il che vuol dire: cominciò a spaziare da un capo all’altro della vista che si godeva da lassù, dalla Loggia del Priore. Con la voce riconduceva Napoli a se stessa e, transitivamente, quell’uomo sfuggente a lei.
In tal modo, dalla Loggia, l’uomo ebbe l’impressione che Napoli gli apparisse per la prima volta. Come dietro un agitarsi di veli bianchi. Come dopo una violenta ondata di luce (difatti quella donna era violenta e passionale in ogni suo atto). In tale modo lei iniziò a parlargli del vulcano (tutto iniziava da lì, come sempre). Il Vesuvio e la sua minacciosa fatalità incombente su tutta l’infanzia di lei, a Torre del Greco. Quando, da ragazza, avvertiva un folle terrore – e un’attrazione parimenti folle – per la lava, la cenere e la morte.
In quegli attimi l’uomo sperimentò una certezza: che lei e Napoli si equivalessero. Cosicché l’una poteva rispecchiare l’altra e viceversa. Era la peculiarità di questa donna dalle braccia candide e dei capelli nero notte. Lei era una filologa e, nello stesso tempo, una potenziale clochard. Napoli, dal canto suo, non si mostrava ugualmente colta e miserrima, corvo e colomba nello stesso tempo? Non amava anch’essa – questa città ai loro piedi – non amava anch’essa la dismisura? Non era anch’essa preda di una chiassosità capace, da un momento all’altro, di esaurirsi e chiudersi dietro portoni sbarrati da secoli, scorticati dai secoli. Oppure di rinserrarsi, improvvisamente, dentro silenzi irremovibili (per poi sbriciolarsi, questa chiusura, dando luogo a scoppi di risa incontrollabili, urla di piacere, impeti d’ira).
Quella donna – come Napoli, del resto – non conosceva la tiepidezza. Lei era torrida, pensò l’uomo mentre la frescura ventilava la panoramica, veneranda Loggia del priore. Lei sprofondava nel calore come una tuffatrice che si lanci ad occhi aperti dentro un mare torbido. Tuttavia, esattamente come quella città benedetta e maledetta, lei sapeva intirizzirti. Sì: tanto lei quanto Napoli erano capacissime di impregnarti fino al midollo con le loro giornate pungenti o tempestose, anche.
Più tardi discesero insieme e a piedi dalla sommità di San Martino. Verso la città bassa. Verso il reticolo della città vecchia che risuonava, al crepuscolo estivo, di vita, clacson, voci impazienti, musiche senza un vero autore o con gli autori ormai morti, sepolti e passati nell’oblio.
Lei abitava, da inquilina di fatto morosa, un appartamento in quel rione magico e popolaresco, dove si custodivano le memorie arcaiche della città come nello spirito di un grande paesone. Chiunque la conosceva e la salutava, quella donna. Ad ogni sorriso o bonario complimento, rivoltole da un negoziante, il cuore dell’uomo esultava. Come se quei segni di apprezzamento, diretti a lei, fossero il riconoscimento della sua bellezza, della sua simpatia umana ed un risarcimento per i troppi voltafaccia della vita.
Casa di lei non aveva mobilio, sembrava reggersi su pilastri di libri impilati senza un principio di ordine (come la sua esistenza, del resto). Casa di lei costituiva un’impervia oasi di silenzio ottenuto, scalandoli a piedi, sei piani di ripido piperno napoletano. Quelle stanze dai soffitti altissimi, con improvvise fioriture di umido e affacciate su di un terrazzino jungla, davano vita a un’oasi di silenzio. Purché lei non fosse in casa con il suo sfaccendare distratto, canterellare, fare l’amore.
Fare l’amore, appunto. E dopo averlo fatto e rifatto a lui veniva voglia di scrivere su quella donna. Rapidi appunti, vergati appoggiando un foglietto volante nell’incavo fra sedere e schiena di lei. Io scrivo su di te, pensava l’uomo, ma in realtà ritraggo Napoli. Io scrivo su di te ma, in realtà, sei tu a dettarmi gli spunti buoni. Perché tu sei un personaggio in ogni senso. E, soprattutto, il personaggio della città. Mentre io sono solo uno scrivano. O uno scribacchino, diciamolo pure. In quei casi lei non perdeva un attimo a scimmiottare il suo parlare forbito, le sue pose seriose e malinconiche, a ridere di lui con lui.
Altre volte quella donna lo canzonava per i sensi di colpa giudaico-cristiani che lui spargeva, con gusto autolesionista e a piene mani, nel vetusto appartamento della Sanità dove si amavano. Complessi di colpa verso Napoli e verso le difficoltà finanziarie di lei (la città e quella donna erano sullo stesso piano e intercambiabili, come sempre).
Altre volte - infuriata per una delle sue tante ragioni o torti – lei lo chiamava sporco giudeo. Non perché fosse antisemita, ovvio. Il fatto è che lui credeva nella colpa e nella punizione, contrariamente all’irenico credo buddista di lei. Ecco: perciò lo chiamava anche il suo piccolo giudeo e gli passava una mano fra i capelli, pensando che non ci fosse null’altro da fare.
Con lo sguardo l’uomo trasvolava da una all’altra delle cupole che ricordavano i seni delle ragazze Io scrivo su di te ma in realtà ritraggo la città Mi detti gli spunti buoni perché tu sei un vero personaggio