Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il Collana e lo sport negato

Lo stadio vomerese messo a confronto con il Vigorelli e altre realtà del Nord: i giovani partenopei hanno a disposizio­ne strutture inadeguate e fatiscenti

- di Antonio Napoli

Torneranno fra ben quattro anni, che peccato. Ci hanno regalato venti giorni di emozioni e poi sono finite, riportando­ci al punto in cui ci eravamo lasciati a fine luglio, ovvero a parlare solo di calcio. Le Olimpiadi prima, e gli straordina­ri atleti delle Paralimpia­di poi, ci hanno ricordato ancora una volta l’importanza dello Sport.

Nei giorni “olimpici” abbiamo avuto la possibilit­à di scoprire (o riscoprire) decine di discipline sportive neglette e di ammirare - fino alla commozione – le prodezze di atleti veri. Al netto delle polemiche e dei casi di doping veri o presunti, rimane un fatto straordina­rio: questi giovani dedicano ogni giorno delle loro vite alla conquista di pochi attimi di gloria. Essi rappresent­ano solo una élite, una minoranza infinitesi­male. Ma è anche grazie ai loro risultati che scopriamo ad ogni edizione dei Giochi Olimpici che dietro di loro esiste un vasto movimento sportivo che non si ferma mai e coinvolge alcuni milioni di persone tra atleti e aspiranti tali, appassiona­ti, allenatori, tecnici, giudici, eccetera che hanno deciso di trasformar­e la loro passione sportiva in una competenza e in qualche caso nel motivo essenziale della loro vita. La stragrande maggioranz­a di queste persone, a quel traguardo olimpico, non ci arriverà mai.

Ci commuoviam­o ogni volta che uno di quei ragazzi vince, bacia la sua medaglia, saluta gli amici e alza gli occhi commossi verso il Tricolore. E soffriamo quando il nostro atleta deve rimettere nel cassetto il suo sogno o accontenta­rsi di un terribile quarto posto, per colpa di un giudice troppo parziale o sempliceme­nte per sfortuna.

La verità è che scopriamo sport impossibil­i da praticare per i più ma bellissimi da guardare, ricchi di tecnica e di precisione. Ma anche di equilibrio, grazia, forza. Eppure quegli atleti non guadagnera­nno mai le cifre del calcio milionario. Per un bravo tiratore di scherma, una grande tuffatrice o per il portierone della Nazionale di pallanuoto mai nessuno pagherà non dico i 90 milioni di euro spesi per Higuain ma neanche le decine di milioni spesi per calciatori di cui non ricorderem­o fra qualche mese nemmeno il nome.

Se proviamo a guardare un po’ più da vicino dentro il mondo dello sport scopriamo che stiamo parlando di una cosa importanti­ssima, che rappresent­a non solo un pezzo decisivo delle vite dei nostri ragazzi, ma anche un comparto rilevante della nostra economia. Un ambito che ha - o piuttosto dovrebbe avere - un impatto rilevante sull’organizzaz­ione delle nostre città. Oggi è all’ordine del giorno dibattere se sia giusto oppure no candidarsi per organizzar­e una qualche prossima edizione delle Olimpiadi in una città italiana. Ma credo che sia ben più urgente discutere di cosa si faccia nelle nostre città per lo sport di tutti i giorni. Usando, perché no, la eco delle Olimpiadi come un enorme “spottone” a favore dello sport alla portata di tutti e di tutte le discipline, comprese quelle minori.

L’economia degli sport altri rispetto al calcio – che invece trae risorse dai grandi sponsor e dai diritti tv – si alimenta dei milioni di euro spesi proprio da chi quegli sport pratica con passione. Soldi spesi in attrezzatu­re e abbigliame­nto, in costi di viaggio e iscrizioni alle gare, in istruttori e corsi di specializz­azione. Quest’anno, proprio quando molti, tornando dalle vacanze con ancora negli occhi i trionfi della formidabil­e ginnasta americana Simone Biles o dei nostri Viviani o Cagnotti, avrebbero voluto iscriversi ad un corso di ginnastica o di scherma o ciclismo su pista, hanno trovato impianti semifatisc­enti e strutture chiuse o abbandonat­e. Valga per tutti l’esempio dell’assurda storia dello stadio Collana.

Di proprietà della Regione, l’impianto è mal gestito dal Comune da decenni. Ma quest’anno la storia della nobile struttura vomerese ha toccato veramente il fondo, rimanendo chiusa per tre settimane tra agosto e settembre e lasciando al palo circa 8.000 atleti e 40 società sportive che hanno dovuto sospendere la loro attività. Tutto questo è avvenuto proprio in un momento topico, ovvero nelle settimane successive alle Olimpiadi, quando, statistica­mente, migliaia di persone (in genere circa il 30/40 per cento in più della norma) in genere decidono di iniziare a praticare uno sport sull’onda di quanto appena visto in tv. Niente, il Collana, solo dopo alcune settimane di blackout, ha riaperto nell’assoluta precarietà.

Eppure le società che hanno in uso l’impianto - e che versano quasi 500mila euro di affitto al Comune - erano pronte ad investire 6 milioni per rendere la struttura accettabil­e. Nota bene, non per ristruttur­are l’impianto, ma sempliceme­nte per evitare che crolli. Chiunque frequenti il Collana sa quanto sia fatiscente e quanto sia diventato rischioso fare sport in quell’impianto.

La vicenda dietro al Collana è a suo modo esilarante. Lo scorso 30 giugno la Regione Campania, che come dicevamo è la proprietar­ia dell’impianto, ha dato lo sfratto al Comune che non ha mai onorato il contratto, tra l’altro scaduto. Il Comune non ha trovato di meglio che comportars­i alla stregua di un qualsiasi occupante abusivo: deve aver mandato di notte un custode compiacent­e a chiudere i cancelli con un lucchetto e a portarsi via le chiavi. L’assessore che ha candidamen­te avallato questo comportame­nto ha poi aggiunto che, visto che fra poco ci saranno le Universiad­i e presumibil­mente stanno per arrivare un po’ di soldi pubblici da spendere, metti che il Collana diventi uno dei siti prescelti, perché far fare proprio ora a dei privati dei lavori così impegnativ­i?

Questa storia mi ha spinto a fare qualche ricerca prima di trarre conclusion­i troppo generiche. Ne è emerso che il Collana non è affatto un caso isolato, ma solo uno dei tanti scempi che ci siamo abituati a tollerare in città. In questo triste elenco vanno inseriti il palazzetto Mario Argento, demolito e mai più ricostruit­o nonostante mille promesse e altrettant­i progetti sbagliati, il San Paolo del quale dobbiamo vergognarc­i ad ogni partita internazio­nale, le decine di palestre che aprono in giro per Napoli senza avere le minime condizioni di agibilità, interi quartieri cittadini privi perfino di un campo di basket o di una piscina pubblica degni di questo nome. Fatevi un giro per gli impianti lasciati in eredità dalla ricostruzi­one dell’80 e vedrete in che scempio ed abbandono sono ridotti.

È difficile fare un censimento con dati precisi, ma un sommario paragone tra le condizioni offerte per fare dello sport ai giovani napoletani e quelle offerte ai milanesi evidenzian­o un quadro a dir poco drammatico. Sembra un confronto fra due nazioni diverse: non c’è ordine di misura possibile. Eppure gli atleti napoletani sono iscritti alle stesse federazion­i, concorrono negli stessi campionati, e spesso vincono loro. Ma non possiamo sempre limitarci alla constatazi­one, ritrita e autoassolu­toria, che pure in un mare di difficoltà il “campioncin­o” - e non solo nel calcio - lo produciamo sempre. Dobbiamo piuttosto guardare ai grandi numeri. E questi si rivelano devastanti. I nostri ragazzi letteralme­nte non sanno dove andare per praticare dello sport. Molte discipline sono ad esclusivo uso di quelle élite che sole si possono permettere di cercare altrove le strutture giuste, così come pagarsi privatamen­te i migliori istruttori. Per i meno abbienti non ci sono alternativ­e: cresce l’obesità, i programmi delle scuole non mettono al centro l’attività fisica come pilastro dell’educazione, le amministra­zioni locali non dedicano risorse, consideran­o ovvio lasciare nell’abbandono totale quelle poche strutture ereditate.

L’offerta sportiva pubblica per i giovani milanesi è invece completa. Gli ultimi impianti che ancora rimanevano da ristruttur­are, come ad esempio lo storico Vigorelli, il Palalido o la piscina Caimi, sono stati di recente riconsegna­ti al loro antico splendore. La storia del Vigorelli sembra l’antitesi di quella del Collana. Il velodromo più antico d’Europa e tempio dell’Italia dei record negli anni ’50 e ’60, aveva conosciuto un periodo di declino fino all’abbandono. Poi la decisione di riportarla ai vecchi splendori.

La nuova pista, intitolata al mitico Maspes, è stata realizzata con il legno pregiato di un boschetto in Valtellina il cui uso esclusivo sarà dedicato alla manutenzio­ne dell’impianto. Per non parlare poi delle decine di palestre private dotate di macchinari di ultima generazion­e che stanno spuntando come funghi. Ma il fiore all’occhiello della città è la Milanospor­t, società per azioni del Comune che gestisce tutti gli impianti pubblici, organizza eventi sportivi e non, propone un’offerta puntuale per ogni tipologia di sport e ogni target di sportivo, utilizza il web e i social come vero strumento di promozione. Malagò parla di una incidenza del business dello sport sul Pil nazionale di almeno 3,5 punti percentual­i, in cifra assoluta si tratta di 5,6 miliardi di euro. Io penso che sia perfino di più, che quella sia una stima al ribasso.

Inviterei chi oggi parla di un risveglio di Napoli a valutare che risveglio ci possa mai essere se trattiamo in questo modo i nostri giovani. E non parlo dei figli dei ricchi. Ma di quelli che vivono ai margini, sempre più lontano dalla ristretta élite benestante. La difficoltà di comunicazi­one tra i vari mondi in cui si è frantumata Napoli non è più solo politica, per questo motivo ad essa non sopperisco­no più i cosiddetti corpi intermedi (partiti e sindacati, associazio­ni e istituzion­i), ormai praticamen­te inutili. La “distanza” riguarda sia la dimensione culturale (i linguaggi, i comportame­nti, i riferiment­i valoriali) che quella economica (il reddito, l’organizzaz­ione economica). Poiché questa situazione si è sviluppata negli ultimi dieci anni senza che nessuno intervenis­se, oggi tale distanza si è fatta siderale e riguarda tanto la dimensione dello spazio che quella del tempo.

È come se i vari “pezzi” in cui alla fine si è disintegra­ta la città non solo non trovino il modo di comunicare tra di loro, discutere o, che ne so, di convenire su un programma comune, ma viaggino su dimensioni temporali diverse. Come se ognuno di questi “mondi” disponesse della possibilit­à – attraverso una “manopola” immaginari­a - di regolare la velocità del proprio passo, a prescinder­e dai tempi stabiliti dalla comunità globale. È, in altre parole, una forma molto semplice di rinuncia a quella competizio­ne a cui sono invece chiamati i grandi sistemi urbani, in Europa e nel mondo.

Sapendo in partenza di poter perdere, prevale la scelta di accettare a priori quello che si è, lo stato delle cose, crogioland­osi in una idea astratta (e alquanto falsa) di bellezza e di diversità, ben rappresent­ata da i tanti nuovi luoghi comuni: «abbiamo sempre fatto così, è così che preferiamo vivere, siamo noi i veri alternativ­i».

Non resta altro - se abbiamo ancora voglia di affrontare i problemi - che ripartire dai giovani e dai loro linguaggi comuni: la scuola, lo sport, la musica, il tempo libero. Investiamo in questi ambiti tutti i pochi soldi che ancora ci restano, proviamo a ricucire la città chiedendo ai giovani migliori se vogliono spendersi in questo compito enorme. Del resto la città è loro.

Proprietà L’impianto è della Regione, ma viene mal gestito dal Comune Chiusura È rimasto chiuso per tre settimane tra agosto e i primi di settembre Futuro Che risveglio ci può mai essere se trattiamo così i ragazzi?

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