Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ugo Gregoretti: «Un nuovo film che parla anche della mia Napoli»
Le suggestioni legate alla città della sua adolescenza e il rapporto con il buen retiro di Pontelandolfo
Il titolo è ancora provvisiorio: Io, il tubo e la pizza. Dove il primo è il catodico delle vecchie tv e la seconda la bobina per avvolgere le pellicole cinematografiche. Ugo Gregoretti, 86 anni, annuncia al Corriere del Mezzogiorno che il film al quale sta lavorando tratterà anche di Napoli, un omaggio alla città dove ha vissuto da adolescente e da giovane. «Ritorno spesso in Campania per non farmi denapoletanizzare troppo da Roma. Ma l’accento, quello, l’ho perso».
«La verità è che Roma mi ha denapoletanizzato.
Allora vengo spesso in Campania per ritrovare l’accento raffinato con cui si esprimevano grandi del calibro di Chinchino Compagna. Purtroppo, con mio rammarico, quell’accento non riesco ad averlo».
A 86 anni suonati Ugo Gregoretti resta il genio di sempre. Ironico, dissacrante ma con garbo, un po’ fustigatore dei vizi italici, un po’ indulgente; incarnazione di una leggerezza calviniana che non è superficialità, «ma planare sulle cose dall’alto». Il maestro è proprio così, capace di scherzare persino sulla sua straordinaria carriera. Due anni fa annunciò l’autobiografia, titolo: Diario di un perfetto
cialtrone. Il gusto di una moquerie verso «i colleghi che si monumentalizzano». Magari avrà anche voluto scongiurare il rischio di essere ricordato (tra cento anni) con statua e annesso piccione.
Intanto trascorre la sua feconda senilità in un continuo pendolarismo tra la capitale e Napoli. Meglio ancora tra Roma e Pontelandolfo, il paesino sannita in cui amava spesso ritirarsi da adolescente e più tardi da giovinetto e che lo ha incoronato cittadino onorario.
«I miei compaesani ci tengono a sventolarmi come un vessillo» scherza. Lui ricambia con ciò che meglio gli riesce: seminare germi di cultura senza rinunciare a far divertire la gente. Tre serate sono già in programma dall’8 dicembre quando, nel centro antico del paese caro ai neoborbonici, verranno proiettati alcuni film in rassegna al festival di Venezia. Ci sarà il poco conosciuto
Maggio musicale dell’89, in cui Malcolm McDowell impersona un regista che mette in scena per il Maggio Fiorentino una Bohème, ma i suoi cantanti gli danno filo da torcere con tanto di buffi incidenti e istruttivi aneddoti.
Invece nella sera dell’Immacolata anche la torre medioevale di Pontelandolfo, un tempo appartenuta alla famiglia del regista, ospiterà una rivisitazione di Quanno nascette
Ninno. Spazio infine al documentario Piazza San Marco del 1956. «Perché Venezia – confessa – è un’altra delle città con cui intrattengo un rapporto affettivo importante». Proprio come Napoli, dove ha vissuto per dieci anni frequentando il liceo, l’università e intessendo amicizie preziose. «Nel dopoguerra mio padre vi aveva trasferito le sue attività imprenditoriali e così fui gradualmente napoletanizzato fino all’assunzione in Rai nel ’53 che mi allontanò, ma solo geograficamente, dalla città».
E dunque a Napoli è dedicato il nuovo lavoro che impegna l’autore in questo autunno. Un film per il cinema di stretta osservanza gregorettiana che gioca sui sinonimi sin dal titolo, per ora provvisorio: Io, il
tubo e le pizze. Dove per tubo si intende, ma non solo, il catodico delle tv di una volta e per pizza il raccoglitore di pellicole cinematografiche (ma pure l’alimento per eccellenza di Napoli?).
Di certo sarà un film a episodi «una raccolta di brevi sequenze da me realizzate in passato, intervallate da riprese nuove. Vorrei riproporre — spiega — una specie di raffica televisiva e cinematografica. I tempi di uscita? Contiamo di poterlo presentare al prossimo festival del lungometraggio di Venezia».
Di più non è dato ancora sapere giacché, mai come nel caso di Gregoretti, la settima arte è un continuo divenire, una ricerca che travalica schemi e consuetudini e dunque i cambiamenti sono all’ordine del giorno. Sicuro invece è il filo conduttore che si dipana continuamente tra televisione (tubo) e cinema (pizza). Una costante di tutta la sua attività, sia pure con qualche sofferenza intima.
Gregoretti lo ha ricordato due anni fa, durante una lectio al Bari international film festival: «Era un morbo generalizzato il disprezzo della tv da parte degli ambienti culturali. Una cosa vera anche oggi. Io ho vissuto le conseguenze di tale disprezzo, giacché venivo proprio dall’ambiente televisivo».
E allora Io, il tubo e la pizza dovrebbe rappresentare anche una sorta di viaggio interiore tra il piccolo e il grande schermo e tra i luoghi dell’anima. Come il fascinoso «castelletto falso gotico nel parco Grifeo a Napoli dove abitavo o gli anni di piazza Vittoria, in un appartamento situato proprio sulla Chiesa di Santa Maria, la cui cupola sbocciava curiosamente sul nostro terrazzo, un dettaglio che ricordo ancora».
Insomma, la suggestione delle strutture anche quando sono modernissime, e in alcuni casi discutibili, come le enormi pale eoliche che stanno sorgendo non lontano dal centro storico della sua Pontelandolfo. I comitati ambientalisti sono sul piede di guerra, le contestano. E Gregoretti? «Se debbo essere sincero a me non dispiacciono, anzi mi piacciono proprio. Non vorrei sembrare bastian contrario ma sono sedotto dagli aspetti estetici. Vederle sorgere accanto agli antichi insediamenti, trasforma il borgo in una duplicazione de La Mancha, dove ti aspetti che da un momento all’altro compaia un Don Chisciotte. Ecco, se c’è un elemento che manca è proprio un hidalgo con la sua lancia che combatta contro i mulini a vento. Chissà, potremmo addirittura usare la storia delle pale come spunto drammaturgico». Lui senza dubbio ne sarebbe capace.