Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Vi «dipingo» mio padre Armando De Stefano
«Sai Stefano, non so se riuscirò a fare un’altra mostra così ricca. A 90 anni la fatica si fa sentire e forse per questo il ciclo che presento oggi al Pan mi è ancora più caro».
E forse, aggiungo io, proprio per questo, Armando De Stefano, mio padre, rompendo una tradizione monografica, stavolta di argomenti ne propone addirittura tre: «Ombre», che dà il titolo all’intero evento e che si riferisce alla sezione dedicata alle poesie di Jorge Luis Borges, «Da Porta Stabia», ispirato dalla pittura pompeiana, e infine «La terra infetta», una riflessione sull’esplosione del recente, terribile fenomeno della terra dei fuochi. «Credo – mi ripete poi cambiando il tono un po’ stanco in un altro più combattivo – che a questo filone dedicherò il prossimo futuro». Già il futuro, quella dimensione astratta, fra l’altro così presente nelle riflessioni del poeta e scrittore argentino che recentemente domina i suoi pensieri («Nessuno vive nel passato, che è già stato, nessuno vive nel futuro, che non è ancora»), che papà cita però con la convinzione del trentenne pronto a lanciare un’altra sfida fatta di figure e colori, in cui l’impegno sociale non è un’etichetta posticcia, ma la sedimentazione di settant’anni di pittura, schierata dalla parte di grandi valori riletti nella continuità della Storia: dal Neorealismo alla rivolta di Masaniello, dalla Repubblica del 1799, ai moti anarchici del primo ‘900 e al mercato dei miti frantumati dal crollo delle ideologie.
Una visione del mondo che ho imparato a respirare sin da bambino e che mi ha trasmesso alcune grandi certezze che mi si sono radicate dentro, un po’ alla volta, senza che nemmeno me ne accorgessi. Innanzitutto un senso di giustizia e discrezione. E poi quello dell’appartenenza a una città, alla sua cultura, alla sua millenaria storia. Una città che mio padre non ha abbandonato nemmeno in presenza di offerte ricevute da giovane a trasferirsi in un’America, dicevano, che lo avrebbe accolto a braccia aperte. E che nemmeno io ho mai pensato seriamente di lasciare, proprio nel sognarla continuamente diversa e migliore. Passioni che sono certo mi nascono da lui. Quella per la pittura, ma anche e soprattutto quella per il teatro, su cui avevo iniziato a fantasticare grazie ai suoi bozzetti per alcune scenografie all’inizio degli anni ’60, e quella per il jazz, l’altro grande amore della sua vita. Ascoltare Chet Baker o il Modern Jazz Quartet a 4 o 5 anni, o sentire le sue mani correre sul pianoforte per «Stella By Starlight» o «Body and Soul», era un po’ come vederlo dipingere. Un quadro in particolare, della fase meno rigidamente figurativa, intitolato come quest’ultimo brano, è per me simbolico e, non a caso, da sedici anni campeggia sulla parete del mio soggiorno.
Un altro insegnamento? Il ri- gore e la coerenza, qualunque sia l’obiettivo che si ha di fronte. Anche nei tre temi dell’attuale mostra, distribuiti fra ben 56 quadri, che vanno dal 2015 a oggi, apparentemente distanti, ma invece a ben guardare avvinti con coerenza al filo rosso della sua vita: le certezze della classicità e del disegno, l’arte come strumento di battaglia ideale, la visione pittorica, infine, come diaframma fra la realtà e il sentire dell’artista. «Ma perché - gli ho chiesto più volte in questi ultimi tre anni – hai scelto proprio Borges?». «Ne parlavo con Mario Persico (uno dei colleghi ai quali mio padre è sempre stato più legato) e mi resi conto, che nelle poesie la scansione dei suoi personaggi appariva molto nitida, quasi tattile, molto più che nella sua narrativa metaforica e surre- ale, a dispetto di una vista via via sempre più labile fino alla cecità». Quello della vista è sempre stato centrale per mio padre, certo perché artista visivo, ma anche perché sin da piccolo costretto a portare gli occhiali. E lui come Borges aveva avuto un enfisema oculare, fortunatamente asciutto e quindi non destinato a svilupparsi in cecità. «E così il concetto di ombra – mi spiega non diventa il prolungarsi di una sagoma oltre la sua stessa materia, ma il filtro della memoria». Quella stessa che domina sempre ogni mia scelta. «Dicono – mi accenna riferendosi al quadro su Democrito di Abdera che questo filosofo si sia accecato proprio per sfondare il muro di una visione più profonda, in cui il ricordo prevale su tutto». Insomma un po’ come quando di notte in pieno buio ci alziamo e proviamo a camminare cercando di scansare mobili e oggetti che sappiamo dove si trovano. E poi c’è qui anche il suo amore per le lingue neolatine, in particolare lo spagnolo.
A casa, infatti, ho sempre trovato libri sparsi di Garcia Lorca, Pablo Neruda, Rafael Alberti. E credo di sapere anche perché. La mia bisnonna, si chiamava Justina Suarez ed era nata a Malaga. Poi, come accadeva spesso a tanti spagnoli nell’800, era giunta a Napoli e qui si era sposata. «Era una sarta bravissima - mi ha sempre raccontato papà - e aveva dei meravigliosi occhi azzurri. Forse quel pizzico di sangue andaluso ha sempre rivendicato in me una sua specifica essenza». E guarda caso veniva dalla città dove qualche anno più tardi sarebbe nato il pittore per antonomasia del ‘900. Picasso nel credo di papà è stato il più grande di tutti, e anche io me ne sono convinto studiando all’università i testi di Argan e Mario De Micheli. Con un pizzico di orgoglio, sapere che papà quel mito lì l’aveva anche incontrato, a Roma negli anni ’50, all’inaugurazione della mostra «Guerra e pace». «Noi giovani pittori – mi ricorda - eravamo tutti emozionati, ma lui fu di una semplicità disarmante: con la sua maglietta a righe bianche e blu sembrava un pescatore e capimmo subito che amava più gli artigiani che non gli intellettuali, lui l’uomo che aveva cambiato il corso dell’arte del XX secolo».
Dal padre del cubismo alla classicità il passo è breve. «Ho sempre portato i miei studenti a Pompei – conferma anche stavolta - a capire l’arte grecoromana. Io la copiavo da ragazzino al Museo Archeologico, in particolare amavo molto il Fauno Danzante, ma anche la testa di Cecilio Giocondo, quella stessa studiata da Vincenzo Gemito». I cui disegni, per mio padre, sono stati da sempre un modello da seguire. «C’è nella sua opera – prova a spiegarmi in termini tecnici - una rilettura matura dell’arte ellenistica: la figura umana intesa come un’architettura». Sarà anche per questo che in fondo anche io ho sempre avvertito la pienezza della nostra tradizione greca, nel suo senso di equilibrio e nel fondamento umano della sua mitologia.
Penso quindi al ciclo su «Dafne» di qualche anno fa e stranamente lo rivedo al negativo in quello attuale sui veleni sotterrati nelle terre campane. Forse perché in entrambi i casi c’è mutazione, che nel progetto futuro di cui sopra potrebbe essere registrata come rivincita della natura. «Non so se avverrà – mi dice papà guardando insieme tele come “L’orto avvelenato” e “Il mostro della terra infetta” – ma stai sicuro che vorrei esserci e raccontarlo con la mia pittura».
Insegnamenti Ho imparato a respirare sin da bambino la sua visione del mondo e mi ha trasmesso alcune grandi certezze che mi si sono radicate dentro