Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La svolta «Blu» di Franco Ricciardi Nasce così il Prince vesuviano
Il nuovo sorprendente lavoro del cantante napoletano cancella ogni pregiudizio sulla sua musica
Mentre nelle ultime settimane impazza il fenomeno Liberato – sconosciuto cantante arrivato nessuno sa da dove, protagonista di una rapida ascesa che è figlia di un paio di singoli interessanti supportati da una attentissima strategia di marketing (tanto da rendere la musica, di fatto, quasi un elemento accessorio) – nei negozi di dischi e sul mercato-web va a ruba «Blu», il nuovo album di Franco Ricciardi uscito a fine aprile per l’etichetta «Cuore Nero» (marchio creato dallo stesso cantante napoletano qualche anno fa). Le canzoni di Liberato e il disco di Ricciardi, frutto di percorsi diversissimi, qualcosa in comune ce l’hanno: sono prodotti dalla chiara identità partenopea, con testi cantati in napoletano ma musiche che oscillano tra il pop, il rock e l’elettronica, e che inevitabilmente guardano oltre i confini cittadini.
La storia di Ricciardi e di questo suo ultimo lavoro, però, è opposta a quella del nuovo idolo dei teenager napoletani, perché frutto di un lunghissimo percorso – Ricciardi ha festeggiato proprio quest’anno i suoi primi trent’anni di dischi – caratterizzato da continue sperimentazioni, ostinati tentativi di fusioni musicali (non necessariamente sempre riusciti a pieno, ma sempre generosi e consapevoli), la fuga da quel mercato delle etichette discografiche che per anni ha rappresentato un freno alla sua voglia di percorrere strade altre. Di tutto quello che ha fatto «il ragazzo di via Marche» in questo trentennio – dagli esordi melodici ai sodalizi con 99Posse, Rocco Hunt e Clementino, dalle chitarre rock alla fascinazione per il trap e l’elettronica degli ultimi tempi, dalle colonne sonore fatte per Garrone e Manetti fino al David di Donatello del 2014 – «Blu» raccoglie i frutti, mescolando elementi diversi con grande facilità ed efficacia, tanto che poi, alla fine, il risultato è un suono ben più ricco di sfumature, più completo e musicalmente stimolante di ciò che (pur apprezzabile) possa mostrare qualsiasi Liberato o chi altri ci sia alle sue spalle.
«Blu» è praticamente un concept album, un flusso sonoro che dà l’idea di un viaggio notturno, in auto, in giro per locali e discoteche, con continui cambiamenti di ritmo e scelte piacevolmente spiazzanti. La spina dorsale di questo disco-viaggio è l’elettronica e le sue contaminazioni. Si parte con sonorità ambient ma con il vivacizzarsi della serata si tracima nel rock e in una electro-tammurriata di nome «Chiammale». Poi ancora sintetizzatori ed elettronica, questa volta più ritmata (quando si è fatta ora di bal- lare), fino a due pezzi rockmelodici come «Ammore senza core» e «Uocchie ‘e na femmena», che sembrano indicare l’avvicinarsi dell’alba. Solo che a questo punto, come succede in quelle serate che riservano sorprese continue, quando l’inerzia notturna sembra stia per terminare il disco ha un sussulto finale, infilando uno dopo l’altro i pezzi migliori: «Jesce», «Sta chiuvenno ancora» e «Capisce a me». Un finale che miscela l’ultimo e definitivo cocktail di dance, soul, disco e pop.
Rispetto a «Figli e figliastri» (ultimo disco di Ricciardi, che proponeva accanto ad alcuni brani nuovi una serie di riletture delle sue canzoni più famose), «Blu» è un disco più “rischioso”, fatto di soli inediti e con diversi azzardi musicali, che alla fine dell’ultima traccia si possono considerare però delle scommesse ampiamente vincenti. Come accade già da tempo, Ricciardi si è circondato, per dar vita a questo disco, di musicisti giovani ma di livello (nel primo concerto in cui è stato suonato il disco, a Trentola Ducenta, alla batteria elettronica c’era un talentuosissimo ragazzo di appena quattordici anni), confermando la tendenza a interagire e dar spazio ai giovani talenti, capacità riconosciuta ed esaltata da un recente articolo pubblicato sull’edizione italiana di una delle più importanti riviste musicali del mondo. Ed è un disco che proprio per questa ragione consacra quello che può essere ormai definito il “metodo Ricciardi”: la capacità di ripartire ogni volta dalla maturità conquistata dal sound del lavoro precedente, inserendo uno o due elementi nuovi come sono, nel caso specifico, le sonorità orientali combinate con l’elettronica.
«Blu» è un album, insomma, molto curato e assolutamente da ascoltare, un disco che – stando a vedere le reazioni della critica e del pubblico – cancella definitivamente quei pochi, residui e stupidi pregiudizi che nei confronti di Ricciardi riserva ancora una (per fortuna piccola) parte della sua stessa città. La dimostrazione che Secondigliano non è poi così lontana da Manchester e Chicago, che in una chiacchierata con un giornalista si possano citare indifferentemente De Andrè e Patrizio, e che con un lavoro meticoloso e un percorso di crescita personale e professionale si riescano tenere insieme echi di Depeche Mode e Nuova Compagnia di Canto Popolare, Eurythmics e Sugarhill Gang, Massive Attack, Chemical Brothers e tradizione classica partenopea. Menzione speciale, infine, è doverosa per la traccia numero dieci, il brano «Jesce»: una canzone costruita e suonata come l’avrebbero fatta Prince o Africa Bambaataa, se fossero nati anche loro a via Marche.
Canzoni costruite come le avrebbe fatte Prince se fosse nato qui Un album che ricorda un viaggio notturno in auto tra locali e discoteche