Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La riforma (monca) del Terzo settore
ANapoli e nel Sud possiamo ancora sperare che quel fenomeno spontaneo, che negli ultimi anni ha rivitalizzato parte del patrimonio culturale, continui ad avere cittadinanza?
La domanda si pone in relazione all’approvazione da parte del governo dei decreti attuativi della Legge delega sulla Riforma del Terzo Settore che ha come obiettivo disciplinare, finalmente, l’intera filiera delle organizzazioni non profit italiane. L’impressione che si ricava dalla lettura dei testi, attualmente al vaglio delle commissioni parlamentari, è che, nel tentativo meritorio di uniformare la normativa e rendere più trasparenti le organizzazioni non lucrative, si sia fatta una scelta ben precisa che merita attenzione.
L’obiettivo che il legislatore ha perseguito è quello di costruire una netta cesura tra gli enti associativi che realizzano finalità di interesse generale su base essenzialmente volontaristica da quelle organizzazioni che contestualmente svolgono, invece, attività economiche per autofinanziarsi. Queste ultime sembrano destinate ad abbracciare la forma giuridica dell’impresa sociale.
Non si è voluto riconoscere la specificità del comparto culturale attribuendo a questa peculiare forma di organizzazioni uno status particolare. Esse potranno esercitare la loro attività o nell’ambito dell’associazionismo di promozione sociale o, come dicevamo, nell’ambito della nuova imprenditoria sociale sulla quale il governo ha puntato molto.
Chiunque conosca da vicino le numerose esperienze che dalla Campania alla Puglia e alla Sicilia hanno preso corpo in ambito culturale saprà che l’associazionismo è stato il motore principale di queste iniziative che in alcuni casi si sono evolute anche in ambito imprenditoriale diventando occasione concreta di crescita civile ed occupazionale. La geografia dell’innovazione culturale e sociale che l’associazionismo ha disegnato raccontano di un Mezzogiorno in cammino. Come non ricordare a Napoli, ad esempio, l’esperienza del Centro Gaiola Onlus che ha rigenerato e ancora oggi custodisce un pezzo prezioso della città di Napoli così come le innumerevoli esperienze in corso di mappatura da parte di Stefano Consiglio e Agostino Riitano nell’ambito del loro prezioso lavoro sulla Sud Innovation. Perché fermare questo processo? Perché rompere la possibilità che questa ibridazione tra attività volontaristica ed attività economica possa convivere efficacemente nella misura in cui l’attività economica sia finalizzata esclusivamente al perseguimento di attività culturali?
I vincoli che il decreto contiene sembrano allontanare questa possibilità. Così come sembra archiviata definitivamente la possibilità di creazione di organizzazioni non lucrative in grado di rispondere alla specificità del settore culturale.
I beni immobili culturali di proprietà dello Stato e degli enti locali che potranno essere dati in concessione agli enti del Terzo Settore non potranno essere efficacemente gestiti senza allestire una attività economica che renda sostenibile la gestione del bene.
Possiamo chiedere alle organizzazioni culturali di stare perennemente con il cappello in mano?
Anche Keynes ci ha pungentemente ricordato che i monumenti di dignità e bellezza attraverso i quali ogni generazione dovrebbe esprimere il proprio spirito per rappresentarlo nella parola del tempo non possono essere costretti al profitto e al successo finanziario. Abbiamo dunque necessità che alle organizzazioni non lucrative sia riconosciuto un ruolo importante nei processi culturali. Il Mezzogiorno ha estremo bisogno di preservare la ricchezza di queste esperienze associative, anzi, ha la necessità di una fiscalità di vantaggio come le zone franche dell’arte di cui, dalle pagine di questo giornale, abbiamo avvertito la necessità di proporre. Ad oggi, senza risposta.
L’associazionismo a volte si evolve in ambito imprenditoriale Il Sud ha estremo bisogno di preservare questa ricchezza