Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un «fil rouge» di errori sul turismo
Le considerazioni di Tobias Piller sulla mancanza di programmazione economica delle classi dirigenti meridionali, e napoletane in particolare, sono largamente condivisibili. Marco Demarco, nell’editoriale di ieri, lo ha detto molto chiaramente.
Ricordando come vicenda emblematica quella del molo San Vincenzo, che le autorità militari tengono in ostaggio, sottraendo alla città, e al suo sviluppo turistico, una risorsa preziosa, per garantire qualche privilegio agli ufficiali della marina. In ragione di presunte esigenze militari, pacificamente assenti non avvistandosi una nave militare nel golfo da trent’anni, il potere pubblico rifiuta di restituire ai cittadini, e alla loro iniziativa economica, una struttura che, sfruttata secondo criteri imprenditoriali sani, varrebbe probabilmente migliaia di posti di lavoro.
Napoli ha tre milioni di visitatori all’anno e Venezia ne ha venticinque e la crescita dei flussi turistici a Napoli si misura in decimali mentre in altre città anche meno attrattive, Torino per dirne una, in diversi punti percentuali. Ciò è dovuto, oltre che alla storica inadeguatezza della classe dirigente, giustamente quanto impietosamente sottolineata dall’articolo di Piller sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, anche forse a una ragione più di fondo, che riguarda il rapporto tra pubblico e privato e la costruzione del consenso a queste latitudini.
Lasciamo da parte la considerazione, pure rilevante per comprendere le ragioni dell’attuale stato delle cose, che anche la parte migliore e più colta della società napoletana ha introiettato una cultura dell’immobilismo urbanistico-edilizio, in un paradossale cortocircuito nel quale alla stagione delle mani sulla città si è risposto cristallizzando la città nell’assetto, brutto, che quella stagione le aveva dato. Al di là e oltre questo, c’è come un fil rouge che unisce tutte le mancanze e gli errori che Piller denuncia, di cui il molo San Vincenzo e il water front del porto rappresentano solo la punta dell’iceberg.
Da Bagnoli a Napoli est, dal palazzo della facoltà di economia sul lungomare al vecchio Hotel de Londres, dal carcere di Nisida alla gestione dissennata del lungomare, e chi più ne ha più ne metta, il minimo comune denominatore sembra essere un potere pubblico che rifiuta il ruolo istituzionale di programmazione e regolazione e pretende di gestire direttamente il territorio. Ciò garantisce un privilegio di casta, come nel caso del molo borbonico, ma ancor di più garantisce il consenso elettorale che la gestione diretta delle risorse può generare. Se le poche cose che si riescono a fare sono sempre una concessione del potere pubblico e mai un successo dell’iniziativa privata, ci sarà sempre qualcuno a cui essere grati al successivo appuntamento elettorale. È una tara socio-culturale di fondo, senza superare la quale nessuno sviluppo serio, né turistico né di altro genere, sarà mai possibile.
La politica locale deve rinunciare a fare annunci di progetti irrealizzabili, utili solo a far oscillare nel breve le lancette del consenso e deve rinunciare ai piccoli e grandi privilegi che alcuni incarichi pubblici garantiscono, per tornare nella sua dimensione naturale. Il potere pubblico non ha la funzione di gestire il territorio, ma di programmarne lo sviluppo, indicando limiti e vincoli e garantendo legalità e certezza amministrativa sugli atti di programmazione e sui tempi della loro realizzazione. Al di là della realizzazione delle infrastrutture, per le quali il ruolo diretto del soggetto pubblico è spesso indispensabile, lo sviluppo dei progetti va lasciato all’iniziativa economica privata che, se troverà anche qui un interlocutore pubblico affidabile e non invadente, non rinuncerà, secondo logiche economiche ormai globali e uguali dappertutto, a cogliere le occasioni che un territorio così ricco di risorse naturali, artistiche e culturali offre a chi ha idee e risorse da investire. Per ragioni geopolitiche del tutto indipendenti dalla nostra volontà, il vento della storia soffia in una direzione favorevole a Napoli e al Mezzogiorno, ma per cogliere l’occasione, forse irripetibile, è necessario ripensare il ruolo del potere pubblico e i meccanismi di costruzione del consenso.