Corriere del Mezzogiorno (Campania)
CON LA LEGGE SUI PICCOLI COMUNI L’ITALIA SCOMMETTE SU SE STESSA
Ha avuto poca attenzione nei media la legge sui piccoli comuni, varata giorni fa in via definitiva al Senato. Eppure è una legge di particolare importanza da molti punti di vista. Riguarda infatti la memoria storica e la fisionomia geografica, e un segmento importante dell’economia e della popolazione del paese.
Riguarda, infatti, una superficie pari a circa la metà di quella dell’Italia e 10 dei 60 milioni di italiani. La diversità tra l’ammontare della popolazione (il 16, 59% di quella italiana) e la percentuale territoriale (anche oltre il 50%) non sorprende. La legge definisce piccoli i comuni con popolazione residente fino a 5.000 abitanti. Si tratta di 5.585 sul totale di 7.998, e, dunque, circa il 70%, dei comuni italiani. Sono, in effetti, comuni, in linea di massima, di collina e di montagna, per lo più in via di progressivo spopolamento, ma con territori quasi sempre molto estesi. La loro importanza economica è attestata dal fatto che essi producono addirittura il 79% dei vini italiani più pregiati e ben il 93% dei Dop e degli Igp nazionali. Aggiungiamo, per chi non lo sapesse, che la «denominazione di origine protetta», Dop, indica che tutte le qualità e caratteristiche, la lavorazione ed eventuali trasformazioni del prodotto avvengono nel luogo di origine.
Per la «indicazione geografica protetta», Igp, invece, solo una o più parti delle qualità e caratteristiche del prodotto e la relativa lavorazione o trasformazione sono dovute a un solo territorio.
La legge è stata approvata all’unanimità; e ciò dopo che da sedici anni se ne parlava e dopo che in tre legislature si era giunti a un passo dall’approvazione, fallendo appunto l’ultimo passo. Il che fa rabbia, pensando che la legge mira alla tutela dell’ambiente, alla prevenzione dei rischi idro-geologici, alla messa in sicurezza di strade e scuole, al miglioramento energetico del patrimonio pubblico, l’acquisizione e la riqualificazione di terreni e di edifici in abbandono e varie finalità di potenziamento e promozione di attività turistiche ed economiche, culturali e sociali.
Dunque, una serie di materie di primario interesse pubblico, e in una serie di campi in cui in Italia i motivi di deplorazione e di scoramento sono molto più che frequenti. E, poiché, anche se dopo tanto tempo, la legge finalmente c’è, vorremmo suggerire una duplice considerazione.
La prima è sulla provvista finanziaria della legge: 100 milioni di euro (10 per il 2017 e 15 all’anno dal 2018 al 2023). Diciamo subito che è davvero molto poco, dato anche il numero dei comuni interessati. Sarà difficile su una tale base evitare una dispersione a pioggia di piccoli finanziamenti per una miriade di modesti interventi nell’ambito degli scopi perseguiti dalla legge. Per partire, va bene, ma dev’essere chiaro che alla prima occasione possibile è necessario rifinanziare la legge in misura più adeguata ai suoi fini.
La seconda considerazione riguarda i comuni destinatari della legge. Essi occupano alcune delle più belle parti dell’Italia, con possibilità di valorizzazione spesso ancora inesplorate. Tuttavia sono numerosissimi i comuni in cui si è fatto e si fa di tutto e di più per offendere la fisionomia e la vocazione dei luoghi e per caratterizzarli in forme e con manifestazioni assolutamente deteriori. Non apriamo neppure il capitolo degli abusi edilizi e delle malversazioni del paesaggio, spesso peggiori proprio nei piccoli comuni, senza che da parte degli altri organi competenti vi sia quel controllo che la legge e il senso comune vorrebbero (abbiamo letto con interesse che il presidente campano De Luca ha accolto positivamente la proposta di Italia Nostra per l’istituzione di una struttura governativa volta specificamente al monitoraggio e alla repressione dell’abusivismo edilizio). Né vogliamo anche solo aprire il capitolo sul pullulare di manifestazioni come le innumerevoli «sagre» (del piede di porco o della trippa o della «pariata» o di altre discutibili specialità) intese come grande promozione enogastronomica. Né, infine, vogliamo aprire il capitolo delle tante più che discutibili maniere per affermare una identità e una personalità storica, culturalmente inconsistenti e dannose proprio a quella identità che vorrebbe affermare (nel Mezzogiorno sono ora di moda intitolare strade ai «briganti», commemorare le «vittime dell’unità d’Italia» e altre cose altrettanto deliziose).
I piccoli comuni debbono insomma alzare la testa e puntare a più alte ambizioni nella gestione del territorio, delle loro memorie e del loro patrimonio storico-culturale, così come nella gestione dei modi e delle vie più intelligenti e di maggior frutto nella valorizzazione del loro grande potenziale di sviluppo non solo materiale. Occorrerà, però, che le altre istanze di governo del territorio, a partire dalle Regioni, facciano al riguardo tutta la loro parte (come finora non è accaduto) e non lascino sole le amministrazioni di centri fatalmente non in grado di provvedere a tante esigenze.
Qui non si tratta solo di evitare un ulteriore e disastroso spopolamento delle colline o montagne o campagne. Si tratta di salvare un grande patrimonio di bellezze paesistiche, di suggestive memorie storiche e culturali, di modi di vita comunitaria di grande valore umano e civile. Si tratta anche di favorire finalmente un’accorta e bella integrazione tra la vita delle città e quella dei piccoli centri (a partire dalla consuetudine delle seconde case) senza cadere in goffaggini e abusi insopportabili. Ed è più che sicuro che l’impresa valga la spesa.