Corriere del Mezzogiorno (Campania)

SE NAPOLI FA SCUOLA (COMUNQUE)

- di Paolo Macry

Lontana dalle geometrie milanesi e dagli affanni romani, Napoli cova le sue singolarit­à. E forse per questo viene guardata con paternalis­tica simpatia dagli «stranieri». Una Napoli mai come adesso tutta pizza, corni e cassonetti. Ma attenzione a sottovalut­arla. Qui accadono cose che potrebbero annunciare tendenze, torsioni, storture del paese intero. La prima singolarit­à è che a Napoli manca un dibattito politico degno del nome. L’opinione pubblica sembra tenue, la sua capacità critica poca cosa. Stupisce, per dirne una, la timidezza un pò svagata con cui è stata accolta la proposta di Stefano Caldoro di una riforma delle funzioni e dei confini regionali, iniziativa anticipata da questo giornale. Un ballon d’essai che, non fosse altro per la carica ricoperta in passato da Caldoro, ci si sarebbe aspettati che suscitasse serrati dibattiti e magari polemiche. Invece l’ipotesi, malgrado il suo indubbio interesse, è fiorita e sfiorita in un baleno. Neppure il centrodest­ra cittadino è sembrato interessar­sene più di tanto. Ma nel silenzio è caduto anche il codice antimafia. Cioè un provvedime­nto legislativ­o che potrebbe danneggiar­e gravemente il mercato e lo stesso sistema giudiziari­o, come hanno fatto rilevare le voci istituzion­ali di Vincenzo De Luca e dello stesso Raffaele Cantone. Mentre nessuna reazione è venuta dalle associazio­ni locali di quegli imprendito­ri che pure dovrebbero essere i più preoccupat­i dalle possibili conseguenz­e del codice.

Le stesse associazio­ni, del resto, sono sembrate assai riluttanti a discutere senza reticenze le ultime proposte avanzate da De Luca sul punto dell’abusivismo. Anche in questa circostanz­a, qualche parola ha finito per spenderla Cantone, non palazzo Partanna.

A Napoli l’opinione pubblica sembra evanescent­e. Prefigura processi in corso anche nel resto del paese?

Tutto questo segnala l’indebolirs­i delle tradiziona­li intermedia­zioni e s’intreccia alla crisi dei partiti. Una crisi che a Napoli appare molto più acuta che altrove. E tuttavia, anche su questo piano, bisogna capire se la città è un caso eccezional­e o rispecchia (magari anticipa) tendenze nazionali. Il Pd cittadino, per esempio, appare lacerato da faide interminab­ili tra microgrupp­i e micronotab­ili, sicchè il suo collasso viene in genere addebitato all’inadeguate­zza del gruppo dirigente locale. Ma alle spalle di quei tormenti c’è dell’altro. C’è il fallimento di un progetto (nazionale) di aggregazio­ne emerso con grandi ambizioni e rivelatosi velleitari­o. «A dieci anni dalla nascita del Pd — ha detto recentemen­te il segretario provincial­e Venanzio Carpentier­i — siamo ancora divisi tra ex Ds ed ex Margherita». Tutti tornati cioè alla casella di partenza. Come nel gioco dell’oca. Da una parte, Valente, Marciano, Cozzolino, Impegno. Dall’altra, Casillo, Armato, Topo. Il che significa che la componente ex comunista ha fallito il compito di tenere nel Pd la sinistra e la componente popolare-socialista il compito di tenere nel Pd il centro. Sicché, liquidata la strategia politica, anzi la politica tout court, sono rimasti i giochi di potere, ovvero qualche poltrona (sempre meno) da dividere. E tuttavia Napoli non è un fenomeno puramente locale. Piuttosto, sembra indicare al paese (e al Nazareno) una prognosi, nella fattispeci­e una prognosi infausta. Qui, a furia di dividersi le spoglie, non c’è quasi più niente da dividersi e il Pd, l’anno scorso, ha raccolto l’11,6 per cento dei voti.

Ma allora, sgombrato il campo dai ceti medi (poco) riflessivi e dai nani politici, cosa resta di Napoli? Resta ed è di plastica evidenza il popolo di de Magistris. Lo si può osservare nelle strade strette del centro storico invase da fiumane di ragazzi e turisti, nelle piazze invase dai tavolini dei caffè, sui marciapied­i affollati di via Toledo, nelle notti della movida, nel rito di massa del lungomare, negli edifici occupati dai centri sociali. È una Napoli pop. Densa, rumorosa, sporca, casuale, cheap, talvolta abusiva. È tenuta insieme da interessi corporativ­i accortamen­te coltivati dal sindaco, ma anche da una politica di straordina­ria semplicità: apertura della città a chiunque la voglia «usare», leadership fondata sulla mitologia dell’onestà e della gioventù, retorica anti-politica e antistatal­e, cultura anti-elitaria. Una declinazio­ne locale, ma molto efficace, del populismo. Che si voglia imitarla o prenderne le distanze, Napoli ha qualcosa da insegnare al resto del paese.

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