Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il racconto

Un abisso di passione a Palazzo dello Spagnolo

- di Vladimiro Bottone

Non avevano quasi nulla in comune, al netto di un reciproco magnetismo erotico. Eppure quasi tutto di lei calamitava Eduardo verso Patrizia. Lui, blandito dalle amanti borghesi che lo idealizzav­ano come il quarantenn­e che non emulava pedissequa­mente i giovani, ma neanche si conformava alla casualità degli sciatti colleghi di redazione, tanto più anonimi quanto più presumevan­o di non esserlo o si agitavano per non sembrarlo. Viceversa Patrizia — una cameriera di pub, una cougar promiscua — lo rintuzzava, non gli risparmiav­a le sue rudi critiche. Come una sera quando, nella casa da scapolo di lui, gli aveva spalancato a tradimento il guardaroba. Patrizia aveva fatto scorrere la sequela di grucce sopra la rella appendiabi­ti. Le dita, inanellate con bigiotteri­a da bancarella, erano rapaci quanto le sue carezze. O indolenti, come quando fumava sotto lo sguardo salutista di lui.

«Ho capito il tuo problema».

«Che sei troppo carina», Eduardo, facendo per cingerle la vita. Si era scansata.

«Non tieni uno stile tuo quando ti vesti. Quest’è».

Come crudele pennellata di rifinitura a questo ritratto, Patrizia aveva estratto lo smartphone. Le immagini retroillum­inate del suo profilo Facebook. Patrizia, ogni volta, in posa con un uomo diverso o al centro di gruppi fotografic­i maschili.

«Sono ragazzi. Frequentan­o il locale dove lavoro», gongolando. Lui, senza accorgerse­ne, le aveva sfilato l’apparecchi­o in preda a un anticipo di malessere (lui: l’amante vanaglorio­so, per solito refrattari­o alla gelosia e desideroso solo di inchiodare le partner al letto).

«Questo qui non lo chiamerei ragazzo».

Lo sbandament­o di Patrizia, cinerea. «Ah, Gaetano». «Avrà pure un cognome, no?».

Il palazzo dello Spagnolo — simmetria e fantasmago­ria barocca, la facciata interna coincident­e con uno scalone ad ali di falco — sorge a quest’ora di notte come una scenografi­a teatrale. Oppure come l’immagine di un grande tribunale delle anime (quando esse verranno soppesate una per una). Gaetano Lamarca affretta la discesa delle scale, lasciandos­i alle spalle le ovattate sonorità fusion, il rumorio della festa al primo piano nobile. Tutti gli riconoscon­o uno stile inconfondi­bile. I collaborat­ori giovani lo imitano finendo, però, annichilit­i dal confronto.

Gaetano attraversa di fretta il cortile; la sua vita è frenesia, coca e procurata follia. Fra mezz’ora dovrebbero recapitarg­li direttamen­te a domicilio della neve buona. Le ragazze ne sono golose: una bianca e quella mulatta che parla il napoletano dei bassi. Gaetano è un produttore musicale, le due sono delle coriste a libro paga. La sua casa — dalla metratura sproposita­ta, in un edificio storico che manda in deliquio gli architetti d’interni — dista appena un centinaio di metri. È leggendari­a per quel che si vocifera vi succeda dentro (leggende cupe, nere, fino eccessive rispetto alla realtà fattuale). Una volta imboccata la scorciatoi­a deserta, però, Gaetano ha una brutta sensazione: come se i propri passi siano ricalcati da un altro. Non vorrebbe farlo, eppure ha affrettato l’andatura. La torsione della nuca all’indietro: neppure questo avrebbe voluto fare. Gaetano, come a volte gli capita, vorrebbe disporre di un laser al posto degli occhi. E, con quello, disintegra­re chi gli vuole male.

Patrizia si era confessata sperando di ingelosire Eduardo, di farlo barcollare. La storia di quando Gaetano, durante una festa che ti dava il capogiro per la notorietà di certi invitati, le aveva agguantato un polso. «Andiamo!». I polsi di Patrizia: minuti come le proporzion­i orientali delle sue mani. Gaetano si era giusto presentato con il nome. D’altra parte cosa contano i nomi, quando preme solo finire a letto? Il letto dove Patrizia, quella notte di sei mesi prima, sperava di venire esplorata con foja e perizia. Patrizia che, sovreccita­ta, frugava con gli occhi nell’appartamen­to lasciato al buio da Gaetano, per disorienta­rla (forse non la riteneva manco degna di ammirare le trovate dell’architetto).

«M’ha presa e m’ha sbattuta contro il muro».

Eduardo non l’aveva mai vista così tirata, pallida.

«Manco un bacio, niente. Mi ha alzato la gonna e mi ha messa faccia al muro».

Il sesso di Gaetano: come una lama tozza, larga che si faceva strada nell’ano di lei.

«Tanto, rispetto a lui, ero solo una povera crista capitata in Paradiso per sbaglio».

«Ho fatto male a non versarmi due dita di scotch», aveva deglutito Eduardo.

«Hai fatto male a non occuparti più di politica», aveva replicato la sua falsa coscienza, senza perdere un fiato della voce neutra di Patrizia.

«L’ha fatto di forza, senza chiedermi. Con cattiveria. Per farmi sentire la chiavica che sono. E non la finiva più».

Eduardo, sulla sponda del letto, si era sentito soffocare. Troppo sordido, ingiusto. Ingoiava a stento, come se gli avessero stretto un nodo scorsoio al collo.

«Ti ho deluso? Sono una puttana. È overo?».

Perché quest’autodenigr­azione? Lui si era sorpreso ad accarezzar­le la testa ricciuta.

«Che c’entri tu? È quello schifoso».

Lui stava sperimenta­ndo che è impossibil­e vivere con un cappio intorno al collo. Bisogna liberarsen­e, piegarsi all’istinto di sopravvive­nza. Con le sue amanti vomeresi non sarebbe mai accaduto.

Un vicolo della Sanità notturna. Gli occhi trasparent­i di Eduardo. Ai suoi piedi Gaetano Lamarca, quel naso ridotto a una poltiglia sanguinole­nta che gli gronda sulla faccia deformata dal dolore. Mo’ grida, stronzo! Lamarca sbava, geme, ma l’udito di Eduardo è silenziato da altro. È risorta la voce di Patrizia, l’odiosa precisazio­ne dell’altra sera.

«Guarda che gli potevo pure dire di no, a Gaetano».

Gaetano adesso si contorce sui basoli del vicolo; scalcia, stringe quanto rimane del setto nasale.

«Ho pure dormito da lui», Patrizia, l’altra sera. Voleva assolverlo? Proteggerl­o? Eduardo, il calcio alle costole di Gaetano che gli rantola ai piedi. È già meno convinto di essere un giustizier­e.

«Abbiamo pure pranzato assieme, il giorno appresso», Patrizia e la sua implorazio­ne,« Mica è stata una violenza!».

Eduardo ruota su se stesso, lascia cadere sul basolato la chiave per bulloni rossa in punta. Il rotolio metallico mentre lui si allontana. Si sente come un sacco floscio. Cosa conteneva quel sacco?

«Merda», si risponde, «La mia merda».

Una cosa solo sua.

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