Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL SAPERE CHE MANCA AGLI ATENEI
Era il 1954 quando Darrell Huff diede alle stampe How to lie with statistics, tradotto in italiano, dopo appena cinquant’anni, con il titolo mutilato in Mentire con le statistiche. Non che nel frattempo l’Italia sia stata a guardare, anzi: di utilizzi «creativi» dei dati se sono visti talmente tanti, innanzitutto nell’università, che quel libro fa un po’ tenerezza. Ciò non toglie che i dati non smettano mai di porre domande. Succede, così, che il calo di studenti campani immatricolatisi presso gli atenei della nostra regione sembra il segnale di un’emorragia inarrestabile. E forse lo è. Ma fino a che punto questa forma di mobilità è un fatto negativo per la Campania e per il Mezzogiorno? Certo, per molti genitori è un bel grattacapo immaginare i figlioletti dediti a sperperare denaro lontani dal focolare domestico. Sebbene Totò, Peppino e la… malafemmina, edito nel 1956, abbia già fornito una trattazione esaustiva dell’argomento. Chissà se invece, intervistati sulle proprie motivazioni, gli studenti non rispondano che andare lontano è il primo passo verso il mondo, o che dall’università si aspettano di acquisire competenze necessarie per vivere entro un orizzonte globale, benché di gran lunga più incerto di quello toccato ai loro genitori. È pur vero, d’altro canto, che la possibilità di scegliere presuppone condizioni economiche almeno sufficienti. Ma è altrettanto vero che proprio le famiglie meno facoltose sono disposte ai salti mortali pur di mandare i figli nelle università che, sulla carta, assicurano maggiori sbocchi occupazionali.
E non è affatto scontato, altresì, che gli studenti formatisi altrove non prendano in considerazione l’ipotesi di fare ritorno in Campania per ritessere la trama, sfibrata, del suo tessuto socio-economico.
La mobilità di giovani in formazione, dunque, non sarebbe un fenomeno negativo in sé, a patto che gli atenei campani fossero in grado, a loro volta, di attrarre altrettanti studenti, studiosi, e competenze da un altrove più esteso. Puntare, risolutamente, sull’internazionalizzazione; dunque, adeguarsi a degli standard rispetto ai quali gran parte delle università meridionali, ma non solo, si è mostrata, per usare un eufemismo, allergica. Non si tratta di esterofilia; parola speculare a «provincialismo». Si tratta di fare i conti con l’insieme dei vincoli e delle opportunità che le mutevoli configurazioni delle strutture mondiali di produzione del sapere pongono alle università del Mezzogiorno.
Per gli studenti, ad esempio, farebbe la differenza poter scegliere di seguire i corsi interamente in inglese (se non in mandarino)? Probabilmente sì. Ma quanti professori sono in grado di tenere lezioni in inglese, senza che i loro strafalcioni divengano virali in quattro e quattr’otto? Pochi. Poco male: significa che l’uso delle risorse disponibili per il reclutamento deve tenere conto anche di questa necessità nella riconfigurazione degli organici.
O ancora, i fondi statali scarseggiano? Purtroppo sì. Ma non sarà tacendo sui concorsi pilotati che si creeranno le condizioni perché si ottengano maggiori stanziamenti di denaro pubblico a vantaggio di chi lo gestisce in modo privatistico. Anche perché quei fondi, per quanto scarsi, restano l’unica fonte di sostentamento per dipartimenti che, se dovessero competere autonomamente nel mercato mondiale della formazione, invece che inveire contro il neoliberismo, o contro la valutazione della ricerca tout court, o perfino contro la valutazione della didattica da parte degli studenti, chiuderebbero i battenti nel giro di pochi mesi. Tanto più se la possibilità di ottenere finanziamenti alternativi a quelli governativi, come i fondi europei, richiede abilità nuove che non si acquisiscono se non in contesti internazionali. Mosse strategiche che oggi, piaccia o no, possono fare la differenza non solo tra chi ha il futuro garantito e chi deve studiare per costruirselo, ma anche tra chi è inane per grazia ricevuta e chi è agguerrito per vocazione.
L’equazione mancata La mobilità dei giovani non sarebbe un fenomeno negativo se se ne attraessero qui