Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Salgado fa riflettere Napoli «Il pianeta è a rischio, vi racconto la metà salva»
Il grande fotografo brasiliano inaugura la mostra di 245 scatti al Pan
NAPOLI Prima di approdare a «Genesis» Sebastião Salgado, ormai vicino alla soglia dei 74 eppure ancora al lavoro - il prossimo book sarà sulle comunità tribali della foresta Amazzonica ha attraversato più di 32 paesi per i più atroci conflitti degli ultimi cinquant’anni; ha documentato gli esodi di massa verso le grandi megalopoli che hanno prodotto le nuove potenze economiche e nuove concentrazioni della ricchezza; si è fermato a lungo solo dopo aver registrato le punte di ferocia e disperazione, che pure lo hanno sorpreso, in Ruanda e in Europa, in Bosnia.
E’ il grande fotografo brasiliano, introducendo la sua mostra con oltre 240 scatti al Palazzo delle Arti di Napoli (sino al 28 gennaio) a raccontarsi nell’Antisala dei Baroni gremita, dopo le presentazioni del sindaco de Magistris al Pan e dell’assessore alla Cultura Daniele («Non c’è logos senza pathos, vera conoscenza senza sofferenza»).
«Genesi» (o Genesis) è il frutto della ripresa delle attività di Salgado dopo un forte crollo emotivo, un lavoro imponente, cominciato nel 2003 e durato dieci anni: quando rigenera con la riforestazione la terra paterna questo piccolo miracolo convince il fotografo-economista, spronato dalla donna che gli ha salvato la vita, la moglie Lélia Wanick, di poter lavorare ancora ma questa volta per raccontare mondi «sorprendentemente» diversi e sereni, benché minacciati: nature e comunità tribali conservatesi incontaminate e in perfetto equilibrio proprio grazie al loro isolamento. Per ora. «Mi hanno chiamato fotografo-antropologo, reporter, economista, ma il mio lavoro è altro e di più, è la mia vita il privilegio di raccontare ciò che ho visto con la fotografia». Ci tiene, Salgado, a precisare alla platea di Castel Nuovo che senza i suoi studi di Scienze Sociali (lavorò per la Compagnia del Caffé in Brasile) la sua fotografia non sarebbe stata la stessa. «Grazie all’Economia so come applicare la mia etica e la mia ideologia al mestiere di fotografo, è quel che insegno con mia moglie ai giovani facendo formazione con nozioni necessarie di antropologia e geopolitica, lo scopo delle foto è che raccontino una storia ma siano anche l’occasione per restituire alla società la realtà che ci offre. Sono fotografo perché adoro la luce e la composizione ma al tempo stesso amo descrivere il mondo e queste fotografie hanno bisogno di avere un senso». La disamina marxista dell’economia globale tra nuovo macchinismo e sottomissione del lavoro purtroppo qui non ci sta tutta. «Un operaio del Ruanda che lavora dall’alba al buio ma vive in una baracca sopravvive in profitto negativo, vale a dire che è lui a pagare quel che produce in termini di sicurezza, salute, opportunità negate... Il mio lavoro “La mano Dell’uomo”, durato sei anni, andava avanti vendendo reportage in diversi paesi che compongono un affresco del mondo del lavoro della seconda rivoluzione, dell’avvento della tecnologia con la disoccupazione brutale, quando la base sindacale come i partiti comunisti dei lavoratori anche in Italia o in Francia in qualche modo hanno cessato di esistere. A quell’epoca, negli ‘80, non si parlava di globalizzazione, 50 anni fa nel mio paese l’80% della popolazione era rurale, oggi vive nelle grandi città, cambiamenti che hanno favorito la nascita di altre potenze provocando una enorme massa di spostamenti e da qui il mio lavoro “In Cammino”: più di 40 reportage pubblicati ovunque, Paris Match ha messo insieme seicento pagine. Dell’emigrazione ci si accorge solo ora perché tocca l’Europa. “Genesi” è nata da “Il Cammino”, ma quando ho fotografato il Ruanda e l’ex Jugoslavia ho documentato una quantità tale di violenza che stavo cominciando a morire, i miei genitori ci hanno regalato casa perché potessi rinascere, quelle terre che erano rigogliose erano diventate un deserto e abbiamo tentato di ricrearvi la foresta, allora ho cominciato a sentirmi meglio e ho deciso che dovevo trovare un modo diverso di fotografare, dovevo fotografare il pianeta, ho visitato regioni dall’Antartico all’Artico anche per preservare questi luoghi ancora incontaminati. Il mio prossimo lavoro in Amazzonia deriva da “Genesi”, spero di consegnarlo in due anni perché si possa insieme condividere la necessità di proteggerci, ne va dell’equilibrio del nostro pianeta. Magari la nostra specie non è in grado di trovare una soluzione ed è programmata per finire, pensiamo all’India che ha ridotto enormemente il suo patrimonio forestale e così sarà per le sorgenti d’acqua che potrebbero non bastare per la popolazione. Non siamo in grado di pensare alle generazioni future. Io da fotografo posso solo contribuire a fornire alcune domande la cui soluzione riguarda una sola e unica specie che deriva dall’homo sapiens, noi tutti».
La mostra curata da Lélia Wanick con Contrasto, Amazonas Images, Civita e Assessorato alla Cultura conta 245 immagini in bianco e nero per cinque sezioni: “Il Pianeta Sud”, “I Santuari della Natura”, “l’Africa”, “Il grande Nord”, “L’Amazzonia” e “Il Pantanàl”, scatti da regioni per lo più irraggiungibili e inospitali, un isolamento che ha preservato «quasi la metà del pianeta».
Al Maschio Angioino Nell’Antisala dei Baroni gremita l’autore di «Genesi» si racconta per oltre due ore