Corriere del Mezzogiorno (Campania)

CRISI ANM, È L’ORA DEI PRIVATI

- Di Mario Rusciano

Che l’Azienda napoletana di mobilità sia ormai un morto che cammina (e sempre più lentamente) sono in molti a pensarlo, anche se pochi lo dicono. È infatti assai difficile che il regalo all’Anm della sua sede di via Marino da parte del Comune, l’abbattimen­to dei superminim­i ai dirigenti o il tentativo di stanare «dipendenti furbi» ed «evasori del ticket» (che andrebbe pagato sull’autobus: poveri autisti!), possano ridare fiato a un’azienda decotta, e non da ora. Quand’anche un’operazione del genere dovesse riuscire – ipotesi del tutto teorica! – occorrereb­bero almeno quattro o cinque anni per vederne il buon esito. E nel frattempo? I cittadini dovrebbero continuare a penare alle fermate per ore intere e poi, presi dalla disperazio­ne, spostarsi comunque in taxi: logicament­e solo chi se lo può permettere. E chi non può? Si arrangi! Mi pare allora che si debba davvero pensare a come voltare pagina e concepire soluzioni meno ideologich­e e più pratiche. Soluzioni che peraltro vanno considerat­e anche per il trasporto regionale – pur esso non proprio in buona salute e attualment­e in terapia intensiva – e che devono necessaria­mente partire dall’immissione nella compagine delle aziende pubbliche di soci privati.

Non solo napoletani, ma italiani o europei (ammesso che li si trovi e che vogliano cimentarsi in un’impresa tutt’altro che facile).

Altra ipotesi sarebbe quella prevista dall’articolo 43 della Costituzio­ne, per cui «a fini di utilità generale» si possono trasferire «a comunità di lavoratori o di utenti determinat­e imprese o categorie di imprese, che si riferiscan­o a servizi pubblici essenziali… ed abbiano carattere di preminente interesse generale».

Ipotesi più difficile da realizzare, in una città come Napoli dal contesto sociale poco sensibile all’interesse generale, ma che avrebbe il vantaggio di evitare la ribellione dei lavoratori e degli utenti, ormai sull’orlo di una crisi di nervi.

Chissà perché la «sinistra ribelle» di vario colore non si preoccupa né della sacrosanta ribellione dei cittadini, né della ribellione ironica (e ovviamente repressa) dei forestieri, sbigottiti di fronte all’inesistenz­a di servizi di trasporto in una grande città, che vanta storia, cultura, arte e che dovrebbe vivere di turismo. Per prevenire le prevedibil­i reazioni di questa sinistra, sarà il caso di ricordare che il trasporto pubblico locale, che è un servizio certamente essenziale per la collettivi­tà, non cessa di essere tale se viene gestito dai privati. Da tempo si dice che non tutti i servizi pubblici sono essenziali e non tutti i servizi essenziali sono pubblici. Ce lo dice con chiarezza la legge 146 del 1990 sullo sciopero in questi servizi, che si applica appunto non solo alle aziende pubbliche, ma pure alle aziende private che gestiscono un servizio essenziale. Del resto si sa che il «bene comune» è salvo, se rimane nell’esclusiva competenza del potere pubblico locale dettare le condizioni dell’appalto del servizio – ivi comprese le garanzie del personale occupato; le tratte indispensa­bili da coprire, specie quelle che portano nelle periferie; eventualme­nte il prezzo (più o meno) «politico» del biglietto, eccetera – come pure rimane nella competenza del potere pubblico locale il controllo sull’adempiment­o, da parte dell’azienda privata, degli impegni assunti con la concession­e del servizio. Francament­e non ci sarebbe da scandalizz­arsi se poi il privato facesse anche degli utili, o se si vuole dei profitti, a fronte del buon funzioname­nto del servizio: che vuol dire efficienza, manutenzio­ne e pulizia dei mezzi, vigilanza sulla diligenza e sulla puntualità del personale, esatta informazio­ne all’utenza sui tempi di percorrenz­a e via dicendo. Tutti «beni comuni» ed elementari, dei quali i fruitori del trasporto pubblico napoletano (e regionale) non godono da troppo tempo: al punto da essere ormai rassegnati perfino di fronte a blocchi improvvisi del servizio, dovuti a rotture degli impianti o dei mezzi oppure a scioperi inutili del personale. Fossi nei panni di qualcuno dei nostri governanti, fautori della cultura della cittadinan­za e della giustizia sociale, sarei preoccupat­o di questa rassegnazi­one: non per la ribellione dei rassegnati, ma per l’ulteriore degrado del senso civico. Perché, prima o poi, ne soffriremo gli effetti: strisciant­i, ma ugualmente devastanti!

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