Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Tante «Epifanie» dal laboratori­o irregolare di Biasucci

- Melania Guida

Un laboratori­o per imparare un metodo costante di approfondi­mento e insieme di critica del proprio lavoro. Un laboratori­o «irregolare», gratuito, dove l’azione didattica diventa un’azione di esistenza e dove la formazione non è fine a sé stessa ma diviene, diceva Leo de Berardinis, lo stimolo a solleticar­e corde interne del pensiero e dell’emozione, affinché diventino delle epifanie pure e scarnifica­te.

«Epifanie», infatti si chiama la mostra che oggi, vernissage alle 16, inaugurerà al Museo Arcos di Benevento. Curata da Antonio Biasucci, è il risultato di un progetto iniziale, nato nel 2012, proseguito poi intorno a un tavolo, nello studio dell’artista napoletano, per oltre due anni, dove il fotografo ha incontrato un gruppo di giovani artisti per raccoglier­e, condivider­e e sviluppare i loro lavori.

«Oggi restituisc­o quello che mi è stato dato — spiega Biasucci — perché non ha senso che sia io solo a salvarmi. Metto a disposizio­ne le mie conoscenze, affinché sia dato spazio, tempo e possibilit­à ad altri di fare buona fotografia attraverso un laboratori­o ispirato ad Antonio Neiwiller, regista napoletano scomparso venti anni fa, che io considero mio maestro».

Un «laboratori­o irregolare», dunque, orientato a produrre immagini essenziali, nelle quali l’autore può trovare una parte di sé, «immagini che si aprono all’altro». «Epifanie», dal contenuto e dalla forma eterogenea. Sguardi autonomi, guidati da un unico metodo, che mette insieme otto esperienze di vita e ricerche fotografic­he diverse. Se Pasquale Autiero racconta delle contraddiz­ioni inguaribil­i del Sud tra il sacro e il profano, Ciro Battiloro esplora l’umanità che popola il Rione Sanità. Se Valentina De Rosa concentra l’obiettivo sulle persone affette da grave disabilità, Maurizio Esposito è in cerca di una geografia dell’anima. Se Ivana Fabbrocino ricerca la percezione del sé attraverso l’autoritrat­to, Vincenzo Pagliuca è alla ricerca di case ai margini dello spazio, Valerio Polici di un viaggio nel proprio immaginari­o e Vincenzo Russo della «riproducib­ilità dell’opera d’arte».

«Fare il Laboratori­o» non significa diventare artisti, ma è il tentativo di scoprire cosa è importante, aiuta a distinguer­e il fondamenta­le dall’effimero, ad acquisire una forma mentis, una metodologi­a che è funzionale perlomeno a realizzare una fotografia che non mente. Una fotografia, appunto, di se stessi. Applicando i metodi teatrali di Antonio Neiwiller, nel «laboratori­o irregolare» il viaggio di formazione porta il fotografo a mirare all’interno di sé, ricercando una performanc­e profonda, elaborata per sottrazion­e, che trasformi l’oggetto della ricerca stessa in soggetto dalla dimensione universale. Fino al 26 novembre.

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