Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Tango glaciale, uno spettacolo-manifesto
Per capire e ricordare la prima volta di «Tango glaciale» al teatro Nuovo, con il pubblico entusiasta che affollava il vicolo dei Quartieri Spagnoli, ingabbiato tra i tubi innocenti del post-terremoto, bisogna provare a ricostruire il clima di un’epoca.
Gli anni Ottanta a Napoli furono anni di avvicinamento ai movimenti artistici di successo internazionale grazie alle nuove gallerie, Amelio, Morra, Rumma, Trisorio. Amelio aveva fatto della propria galleria un punto di riferimento per i protagonisti del panorama artistico internazionale, ma anche una fucina-laboratorio per tutti quei giovani interessati agli esperimenti e alle ricerche dell’arte contemporanea. Lucio organizzò una «Rassegna della nuova creatività nel Mezzogiorno», che durò un anno intero. Non solo pittura, ma anche teatro, musica, cinema, fotografia che portò poi alla fiera di Basilea.
Il primo aprile del 1980, ci fu l’incontro a Napoli delle due «grandi anime» dell’arte contemporanea, il tedesco Joseph Beuys e l’americano Andy Warhol. Se Beuys teorizzava un rivoluzionario concetto di arte, allargato all’antropologia filosofica, Warhol impersonava l’America della superficialità consumistica. Due artisti, ciascuno a proprio modo interpreti delle inquietudini del Novecento nell’approssimarsi della sua fine.
Poi, a novembre, l’Irpinia e gran parte della Campania furono sconvolti da un terremoto che fece 2914 vittime e distrusse interi paesi. Il terremoto segnerà lo spartiacque tra le ultime utopie degli anni Sessanta-Settanta e il «ritorno all’ordine» degli anni Novanta, quando le innovazioni artistiche si normalizzeranno nel cosiddetto «rinascimento napoletano».
Tra la fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, l’ambiente culturale napoletano fu straordinariamente vivace. La colonna sonora dell’epoca era quella chiamata «Neapolitan Power». Altrettanto vivace era la scena teatrale. Abbandonate le esperienze «moderniste» del Teatro Esse, che nel 1972, cessò le sue attività, nascevano i nuovi protagonisti della scena teatrale campana: il Teatro studio di Caserta con Toni Servillo, Falso Movimento con Mario Martone, Spazio Libero con Vittorio Lucariello. Achille Mango ne fu il «padre spirituale» e Rino Mele il teorico che citava Bob Wilson ed evidenziava i labili confini tra la performance artistica e quella del nuovo teatro, dove l’azione corporea sostituisce la «parola teatrale» basata su un testo letterario. Una vera e propria rivoluzione linguistica che il critico Beppe Bartolucci chiamò «Teatro immagine». È in questo clima che esplode «Tango glaciale», nel 1982. Vero e proprio manifesto poetico del post-terremoto a Napoli e poi grande successo internazionale. Thomas Arana, il giovane attore che accompagnava Lucio Amelio, ne fu il newyorkese che marcava la novità cosmopolita e pop di uno spettacolo che non aveva niente a che fare con gli altri esperimenti teatrali che si erano visti nelle rassegne di «nuovo teatro» al San Ferdinando di Napoli o al Verdi di Salerno.
Lo spettacolo non aveva una vera e propria trama, mostrava l’incrocio di vari ambienti disegnati da giochi di luce, filmati e diapositive. I disegni di colore acido e dalle forme vagamente espressioniste erano di Lino Fiorito, le parti cinematografiche di Angelo Curti e Pasquale Mari. La colonna sonora di Daghi Rondanini elaborava ossessivamente il «Libertango» di Astor Piazzolla. Gli attori più che recitare si muovevano freneticamente e mimavano qualcosa che era forse un dramma domestico o un giallo metropolitano. Thomas con un impermeabile alla Bogart, aveva anche una pistola. Con lui in scena
Amelio aveva fatto della sua galleria una fucina per i giovani Bartolucci chiamò Teatro immagine la nuova tendenza scenica
c’erano Andrea Renzi, giovanissimo, un volto pulito, un ragazzo che tutti avrebbero voluto come figlio o come fratello, e Licia Maglietta, bellissima, un volto e un corpo che sembrava venirti incontro mantenendo una indefinibile distanza. Tutti, attori e tecnici, erano membri di Falso Movimento, la nuova creatura che Mario Martone aveva battezzato con il titolo di un film di Wenders. Il primitivo gruppo si chiamava I Nobili di rosa, una formazione studentesca che subito si era posta il problema della commistione dei linguaggi tra arti visive, musica, cinema e la nascente manipolazione elettronica.
L’attenzione ai meccanismi della società dei mass-media e della pop-art prendeva il posto delle discussioni sul ruolo dell’attore, sull’interpretazione del «testo» e su tutto quello che aveva caratterizzato la scena teatrale sia tradizionale che d’avanguardia, ma che, a quanto pare, allora a Martone non interessava per niente.
In un ambiente caratterizzato da liti e gelosie, come era allora il teatro a Napoli, Martone era come un marziano: la sua giovinezza era anche la giovinezza di una generazione che guardava al futuro senza più gli orpelli di un ribellismo sterile, di maschere ideologiche, di travestimenti da anticonformista «hippie style» con fantasie psichedeliche. «Tango glaciale» divenne in breve l’approdo e il manifesto della «Nuova Spettacolarità», l’esempio di una interazione tra teatro e comunicazione elettronica.
Se ne realizzò anche una trasposizione televisiva presso gli studi della Terza Rete napoletana, utilizzando un primitivo e ancora imperfetto chroma key. L’esperimento non riuscì a bissare la forza innovativa dello spettacolo teatrale, servì probabilmente da stimolo per la costruzione di altri spettacoli televisivi di Martone e forse, in seguito, per quel nuovo e sconvolgente avvenimento teatrale che fu «Ritorno ad Alphaville», nel quale si intrecciavano l’amore per il cinema di Godard, il video, la recitazione di Thomas Arana e le parole videoregistrate di Vittorio Mezzogiorno a ricordare l’eterno fascino del teatro, dell’attore che dialoga con il pubblico nel suo stesso spazio vitale.