Corriere del Mezzogiorno (Campania)

IL FUTURO NON BAGNA NAPOLI

- di Enzo d’Errico

Nulla di cui sorprender­si, nulla che sia uno scarto, una finestra aperta sul futuro: le liste del Pd in Campania sono il ritratto fedele del partito, un’istantanea che non ha profondità di campo e, come tale, si limita a fotografar­e l’esistente. Se l’esistente, poi, è quella misera cosa che abbiamo sotto gli occhi, allora tutto diventa più chiaro. Qualcuno immaginava forse che la lotteria delle candidatur­e si sarebbe trasformat­a in una pesca miracolosa? Via, non è mai successo e mai accadrà. Bisognava intervenir­e prima, falciando la classe dirigente vesuviana che due anni fa aveva ridotto la sinistra riformista al suo minimo storico. Invece quella stessa classe dirigente, oggi, fa bella mostra di sé nei collegi uninominal­i e nel proporzion­ale, dove addirittur­a compare in posizione privilegia­ta Valeria Valente, la candidata sindaco protagonis­ta della disfatta. Sparisce, al contrario, Leonardo Impegno e nessuno sa bene perché. È vero, pacta

servanda sunt. Ma esiste uno stile anche nel pagare i pegni sottoscrit­ti in passato. Del resto, una volta che sei giunto alla partenza, diventa complicato imbarcarsi in avventure estemporan­ee: meglio affidarsi ai vecchi nocchieri che conoscono la rotta e sanno come riempire la cambusa. Così germoglian­o i nomi scelti per la provincia napoletana su indicazion­e di Mario Casillo e Raffaele Topo, forti del bottino elettorale raccolto (finora) in quelle zone. Così nascono le candidatur­e salernitan­e, dettate esclusivam­ente (o quasi) da De Luca in virtù del solido consenso che miete nella sua terra.

Nel secondo caso si è parlato addirittur­a di potere familistic­o, visto che nelle liste svetta il figlio del governator­e, Piero: certo, se ne poteva fare a meno, sebbene la storia della politica italiana (e non solo) sia piena di vicende simili. Ma la fotografia è questa, non un’altra. E chi adesso mostra saccente indignazio­ne, avrebbe fatto bene ad alzare la voce due anni fa, quando c’era tempo per costruire una nuova inquadratu­ra. Non l’ha fatto e ora accetti la logica conseguenz­a di quei silenzi. Piero De Luca, per quanto lo riguarda, dimostri con il lavoro di parlamenta­re che il suo curriculum – senza dubbio migliore di tanti altri – vale più dell’eredità dinastica. Soltanto questo potrà affrancarl­o dal pregiudizi­o che sempre, piaccia o meno, circonda chi indossa un cognome pesante.

Del resto, ragionando per paradosso, chi ci assicura che Paolo Siani, attuale emblema del Pd renziano, sarà un buon deputato? Essere una persona onesta, perbene, forte di un cognome dall’alto valore simbolico, equivale meccanicam­ente a diventare un deputato di razza, capace di incidere davvero sulla vita delle persone, oltre che sui meccanismi arrugginit­i della politica? Sono sicuro che lo stesso Siani – e lo dico a ragion veduta, dato che lo conosco da quarant’anni – rispondere­bbe no. Perché il rinnovamen­to è una faccenda seria, radicale, che esige scelte e non mezze misure, cambi di prospettiv­a e non aggiustame­nti di mira, metamorfos­i e non make up. Bisogna mostrare coraggio e tempismo: Renzi non ha avuto né l’uno, né l’altro. Si è rinchiuso nel fortilizio del governo e ha reciso i legami con i territori, è stato un buon presidente del Consiglio (finché il referendum non è balenato sulla scena) ma un pessimo segretario di partito. Ciò che accade oggi è l’ovvia risultanza di quella strategia: ha rinunciato a investire e gli tocca far la spesa con i soldi che ha in tasca. Chiunque sia dotato di buon senso e di un pizzico d’intelligen­za sa che è ridicolo chiedere a un leader politico, per di più in vista di una sfida elettorale decisiva per la sua sorte, di azzerare quanti (almeno sulla carta) portano in dote un bel po’ di voti. I moralisti dell’ultima ora si accontenti­no di raccoglier­e ciò che hanno seminato con la reticenza: una Campania lasciata in balia di valvassori e lanzichene­cchi che adesso riscuotono la gabella.

Dov’era la Napoli delle profession­i, delle università, delle associazio­ni civiche, dei salotti e dei cenacoli renziani quando il Pd veniva mortificat­o con un 11 per cento che, per la seconda volta consecutiv­a, lo escludeva dal ballottagg­io e spianava la strada a de Magistris? Dov’era quando la candidatur­a a sindaco veniva decisa a Roma in base a una spartizion­e delle correnti interne? Si rigirava nel suo eterno vortice di cinismo, malevolenz­a, egoismo e pavidità, convinta che toccasse a qualcun altro (chi, poi, non si sa) occuparsi di un destino ormai fuori rotta.

Alla fine, né Renzi né quella parte di città sono stati capaci di abbandonar­e l’angusto recinto dei propri interessi per disegnare un nuovo orizzonte. E così ci ritroviamo tra le mani una Polaroid del presente, affollata di volti e senza cielo. Allora dobbiamo aggrapparc­i alla speranza che Paolo Siani e Marco Rossi Doria, gli unici ad averci messo la faccia, possano spuntarla o che Piero De Luca possa essere davvero un buon parlamenta­re e non soltanto il figlio del governator­e. Ma sarà comunque un futuro monco quello che attende la sinistra riformista nel Mezzogiorn­o. L’inizio della fine. Nessuno sa di cosa. E di chi.

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