Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Miniero e la voglia di duce, almeno in tv

Il film del regista partenopeo racconta un popolo di nuovo pronto ad amare un capo unico

- di Antonio Fiore

Indignarsi? Divertirsi? Inorridire? Di fronte al Mussolini risorto del film del napoletano Luca Miniero (da giovedì scorso nelle sale) la cosa più saggia da fare è interrogar­si: non tanto sul pericolo del ritorno di un’ideologia malata, quanto sulla permanenza di un pensiero «forte», l’idea – in tempi di crisi sempre prevalente – che la democrazia abbia fallito tutti i suoi obiettivi e che la politica sia ormai un cadavere in putrefazio­ne.

Con le elezioni alle porte e i populisti all’assalto c’è poco da stare allegri, e a causa di (o grazie a) film come questo la preoccupaz­ione aumenta. Intendiamo­ci, Sono tornato è una semplice commedia, neppure originale nello spunto. È infatti il remake di un film tedesco del 2015, Lui è tornato, a sua volta versione cinematogr­afica di un libro di successo: lì il

revenant era ovviamente il Führer, qui il Duce. Che per inspiegabi­le prodigio risorge (alle caviglie ancora le corde con cui il suo corpo era stato appeso a piazzale Loreto) dalla Porta Alchemica di piazza Vittorio, culla della multietnic­ità contempora­nea, e subito incrocia giovani italiani di colore chiedendos­i se si trova a Roma, o piuttosto ad Addis Abeba. All’edicola legge su un quotidiano che l’Italia ha detto sì alle unioni gay e gli viene un coccolone. Chiede dove prendere un bus, e quando gli indicano «piazza Matteotti» ha un naturale moto di disgusto. La sera si ritira a dormire in quella che crede ancora casa sua, cioè a Villa Torlonia, si infila nel letto ma al risveglio viene terrorizza­to da una scolaresca in visita. Sembra un matto, o meglio un comico, un imitatore che non riesce mai a uscire dal proprio personaggi­o (e dall’orbace) e come tale lo ingaggia tal Canaletti (Frank Matano, youtuber e giudice di talent), aspirante regista e collaborat­ore molto precario di una tv commercial­e che vede in Lui una possibile star mediatica. I video in cui il redivivo Mussolini (girando il Paese in furgone giallo sponsorizz­ato da produttore di mozzarella di bufala) incontra italiane e italiani entusiasti dei suoi modi bruschi e diretti spopolano in breve sulla Rete: al punto che la spregiudic­ata e arrivista direttrice televisiva gli affida un Mussolini Show che batterà in ascolti persino Don Matteo consacrand­olo alla popolarità televisiva, e lo share stellare viene salutato dall’intera redazione al grido di «Faccetta nera»: dopo i primi comprensib­ili momenti di sbandament­o (Il Crapone impara a usare internet ma si chiede perché il mouse non venga chiamato italicamen­te «topo», o canta «L’italiano» di Toto Cutugno credendo che «un partigiano come presidente» sia solo una battuta ironica) l’ex uomo della Provvidenz­a comprende che la television­e è l’arma più forte (forse persino più forte dell’Uomo Forte) e che le adunate oceaniche non hanno più bisogno di piazza Venezia ora che c’è l’infinita piazza virtuale del web. Insomma l’Italia è pronta, oggi più di ieri, ad amare e acclamare un capo, un padre, un padrone, una guida suprema cui (anche grazie alla martellant­e fanfara televisiva: Mussolini diventa super-ospite in tutti i talk show da Cattelan a Mentana: manca solo il salotto di Vespa, e ce ne dispiace) sottomette­rsi con fiducia. Un dittatore, un razzista, un promulgato­re di leggi infami: però – e qui sta la fondamenta­le differenza con l’originale teutonico – mentre Hitler rappresent­a (non solo) per la Germania un innominabi­le tabù, anzi (tranne che per i neonazi) il Male assoluto, Mussolini è per gli italiani un Male relativo, quello che «se non avesse fatto la guerra», eccetera. Quello che piaceva alle donne (e che qui sa scrivere sms romantici e virili come i femminiliz­zati maschietti odierni non sanno più...). Miniero, re Mida del remake (era suo

Benvenuti al Sud, fortunato rifaciment­o del francese Giù al Nord) e il suo sceneggiat­ore Guaglianon­e sono bravi a insinuare il sospetto che il germe fascista sia inseminato nel dna nazionale, secondo la frase stessa del Mascellone: «Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani». Italiani d’oggi che, nelle candid camera «reali» che costellano il film e ne costituisc­ono la parte più preoccupan­te, invocano con demente disinvoltu­ra l’affondamen­to dei barconi di migranti o un sistema politico basato su «due partiti al massimo». O ancora, come chiede un napoletano al duce in tournée sui Quartieri Spagnoli, «una dittatura libera, non troppo dittatura». Eccoci al punto: sul banco degli imputati non c’è tanto Mussolini, già condannato senza appello dalla Storia, quanto la nazionale mancanza di memoria, l’identità perduta di un popolo di rintronati, rancorosi e incattivit­i dai media, i veri Mostri, i dittatori assoluti del Nuovo Millennio, ben più subdoli di quelli vecchi: e, si sa, un popolo che non ricorda i propri errori è condannato prima o poi a ripeterli. O, come tuona dai telescherm­i Mussolini (un Massimo Popolizio straordina­rio, in grado di rendere sia pure in chiave grottesca un Mussolini «umano» quanto quelli indimentic­ati di Ivo Garrani e di Rod Steiger): «Eravate un popolo di ignoranti, dopo ottant’anni torno e vi ritrovo un popolo di ignoranti». Vabbè, è ignorante pure lui perché gli anni sarebbero 72, ma l’importante è che l’unica a ricordare tutti i suoi crimini sia una donna, una sopravviss­uta ad Auschwitz. Quanto al resto degli italiani «veri», lo inseguono lungo i Fori Imperiali per farsi un selfie con lui, gli fanno tenerament­e ciao ciao con la manina o stendono fieramente il braccio nel saluto romano. Per fortuna c’è anche uno che saluta con il pugno chiuso e uno che fa le corna: a ricordarci che, come diceva un altro protagonis­ta del ‘900 recentemen­te risorto al cinema, «la democrazia è la peggior forma di governo esistente, fatta eccezione per tutte le altre».

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