Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Miniero e la voglia di duce, almeno in tv
Il film del regista partenopeo racconta un popolo di nuovo pronto ad amare un capo unico
Indignarsi? Divertirsi? Inorridire? Di fronte al Mussolini risorto del film del napoletano Luca Miniero (da giovedì scorso nelle sale) la cosa più saggia da fare è interrogarsi: non tanto sul pericolo del ritorno di un’ideologia malata, quanto sulla permanenza di un pensiero «forte», l’idea – in tempi di crisi sempre prevalente – che la democrazia abbia fallito tutti i suoi obiettivi e che la politica sia ormai un cadavere in putrefazione.
Con le elezioni alle porte e i populisti all’assalto c’è poco da stare allegri, e a causa di (o grazie a) film come questo la preoccupazione aumenta. Intendiamoci, Sono tornato è una semplice commedia, neppure originale nello spunto. È infatti il remake di un film tedesco del 2015, Lui è tornato, a sua volta versione cinematografica di un libro di successo: lì il
revenant era ovviamente il Führer, qui il Duce. Che per inspiegabile prodigio risorge (alle caviglie ancora le corde con cui il suo corpo era stato appeso a piazzale Loreto) dalla Porta Alchemica di piazza Vittorio, culla della multietnicità contemporanea, e subito incrocia giovani italiani di colore chiedendosi se si trova a Roma, o piuttosto ad Addis Abeba. All’edicola legge su un quotidiano che l’Italia ha detto sì alle unioni gay e gli viene un coccolone. Chiede dove prendere un bus, e quando gli indicano «piazza Matteotti» ha un naturale moto di disgusto. La sera si ritira a dormire in quella che crede ancora casa sua, cioè a Villa Torlonia, si infila nel letto ma al risveglio viene terrorizzato da una scolaresca in visita. Sembra un matto, o meglio un comico, un imitatore che non riesce mai a uscire dal proprio personaggio (e dall’orbace) e come tale lo ingaggia tal Canaletti (Frank Matano, youtuber e giudice di talent), aspirante regista e collaboratore molto precario di una tv commerciale che vede in Lui una possibile star mediatica. I video in cui il redivivo Mussolini (girando il Paese in furgone giallo sponsorizzato da produttore di mozzarella di bufala) incontra italiane e italiani entusiasti dei suoi modi bruschi e diretti spopolano in breve sulla Rete: al punto che la spregiudicata e arrivista direttrice televisiva gli affida un Mussolini Show che batterà in ascolti persino Don Matteo consacrandolo alla popolarità televisiva, e lo share stellare viene salutato dall’intera redazione al grido di «Faccetta nera»: dopo i primi comprensibili momenti di sbandamento (Il Crapone impara a usare internet ma si chiede perché il mouse non venga chiamato italicamente «topo», o canta «L’italiano» di Toto Cutugno credendo che «un partigiano come presidente» sia solo una battuta ironica) l’ex uomo della Provvidenza comprende che la televisione è l’arma più forte (forse persino più forte dell’Uomo Forte) e che le adunate oceaniche non hanno più bisogno di piazza Venezia ora che c’è l’infinita piazza virtuale del web. Insomma l’Italia è pronta, oggi più di ieri, ad amare e acclamare un capo, un padre, un padrone, una guida suprema cui (anche grazie alla martellante fanfara televisiva: Mussolini diventa super-ospite in tutti i talk show da Cattelan a Mentana: manca solo il salotto di Vespa, e ce ne dispiace) sottomettersi con fiducia. Un dittatore, un razzista, un promulgatore di leggi infami: però – e qui sta la fondamentale differenza con l’originale teutonico – mentre Hitler rappresenta (non solo) per la Germania un innominabile tabù, anzi (tranne che per i neonazi) il Male assoluto, Mussolini è per gli italiani un Male relativo, quello che «se non avesse fatto la guerra», eccetera. Quello che piaceva alle donne (e che qui sa scrivere sms romantici e virili come i femminilizzati maschietti odierni non sanno più...). Miniero, re Mida del remake (era suo
Benvenuti al Sud, fortunato rifacimento del francese Giù al Nord) e il suo sceneggiatore Guaglianone sono bravi a insinuare il sospetto che il germe fascista sia inseminato nel dna nazionale, secondo la frase stessa del Mascellone: «Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani». Italiani d’oggi che, nelle candid camera «reali» che costellano il film e ne costituiscono la parte più preoccupante, invocano con demente disinvoltura l’affondamento dei barconi di migranti o un sistema politico basato su «due partiti al massimo». O ancora, come chiede un napoletano al duce in tournée sui Quartieri Spagnoli, «una dittatura libera, non troppo dittatura». Eccoci al punto: sul banco degli imputati non c’è tanto Mussolini, già condannato senza appello dalla Storia, quanto la nazionale mancanza di memoria, l’identità perduta di un popolo di rintronati, rancorosi e incattiviti dai media, i veri Mostri, i dittatori assoluti del Nuovo Millennio, ben più subdoli di quelli vecchi: e, si sa, un popolo che non ricorda i propri errori è condannato prima o poi a ripeterli. O, come tuona dai teleschermi Mussolini (un Massimo Popolizio straordinario, in grado di rendere sia pure in chiave grottesca un Mussolini «umano» quanto quelli indimenticati di Ivo Garrani e di Rod Steiger): «Eravate un popolo di ignoranti, dopo ottant’anni torno e vi ritrovo un popolo di ignoranti». Vabbè, è ignorante pure lui perché gli anni sarebbero 72, ma l’importante è che l’unica a ricordare tutti i suoi crimini sia una donna, una sopravvissuta ad Auschwitz. Quanto al resto degli italiani «veri», lo inseguono lungo i Fori Imperiali per farsi un selfie con lui, gli fanno teneramente ciao ciao con la manina o stendono fieramente il braccio nel saluto romano. Per fortuna c’è anche uno che saluta con il pugno chiuso e uno che fa le corna: a ricordarci che, come diceva un altro protagonista del ‘900 recentemente risorto al cinema, «la democrazia è la peggior forma di governo esistente, fatta eccezione per tutte le altre».