Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL VUOTO TV CHE (S)PARLA E FA OPINIONE
Tra le tante Napoli, ce n’è una che sollazza più di tutte il consumatore della Tv di approfondimento. Da Samarcanda fino a Piazza Pulita. È la Napoli laboratorio di extra-territorialità civile e linguistica. L’ultimo episodio di questa trentennale saga a reti unificate è liberamente tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto: il tentato omicidio di un ragazzo di diciassette anni da parte di un gruppo di minorenni. La scena madre: sul ring due persone trasformate in figure bidimensionali, loro malgrado. All’angolo destro, direttamente da «L’isola di Arturo» di Elsa Morante, il peso massimo in antropometria comparata: la professoressa Maria Luisa Iavarone. All’angolo sinistro, direttamente da «Covata malefica» di David Cronenberg, il peso piuma in periodo ipotetico: ’a mamma
d’o nano. Occhio. C’è da rimanerci strabici. Si rischia di perdere di vista il territorio che si estende tra questi due poli, a Napoli come nel resto del Paese. Vale a dire la sterminata terra di mezzo dove si parla una lingua sempre più omogenea e amorfa. Che irride le forme sgrammaticate, le soluzioni incerte, o le inflessioni regionali, solo quando sono tali da far sanguinare occhi e orecchie, ma allo stesso tempo si stizzisce al cospetto dei modi di esprimersi esperti, ragionati, oppure appena appena forbiti. Ha buon gioco nel mischiare le prospettive con le strumentalizzazioni perché non ha chiara la distinzione tra gli argomenti e le opinioni. Sfotte l’intellighentsia perché si misura con la «scementsia». Una lingua che negli ultimi dieci anni ha riesumato gli inestetismi, la cacofonia, e i nomignoli dispregiativi dell’«Uomo qualunque».
Al punto da elevare il dileggio sistematico a satira di sistema. Un tempo era la lingua del Bagaglino. Poi dei rossobruni. Oggi dà voce alla cagnara farneticante d’invasioni di migranti senza aver mai dato uno sguardo ai numeri reali; figuriamoci provare a capirci davvero qualcosa.
È intergenerazionale, è solida, e spregiudicata: svaluta la competenza quando la riconosce e aggredisce la diversità quando non la concepisce. In campagna elettorale si cristallizza. L’Accademia della Crusca ha sollevato la questione in una nota del 21 gennaio scorso. Embè? Chi se ne frega?
Il dibattito politico in corso rispecchia questa egemonia culturale che è, fino a prova contraria, trasversale ai partiti, ai movimenti, e alle rispettive liste. Prescinde dalla promiscuità del nuovo sistema elettorale e si esprime nel susseguirsi convulso di una nuova forma di outing: la dichiarazione di vuoto. E il vuoto è tutt’altro che taciturno. Parla di sé, straparla ti tutto e sparla di tutti. Ostruisce i distinguo, confonde; è simile ai Meme: usa l’ironia come allusione e l’allusione come ironia. Decontestualizza fino al parossismo. Rende ambigue le accuse e le offese, interscambiabili gli stereotipi, brillanti le ovvietà.
Non ha a che fare tanto con il parlato, quanto con gli slogan attraverso cui i singoli prendono posizione su temi fortemente divisivi, cosicché gli umori del momento possano trovare collocazione tra le maglie asfittiche di griglie di consenso ultra-semplificate; dunque leggibili, quantificabili, e manovrabili.
E allora il paradosso non è più paradosso. Fenomeni stratificati, come la violenza urbana, interpellano le «baby-gang a Napoli», anche quando non c’entrano nulla (come nel caso della disgrazia capitata al ragazzo di Casoria caduto da un treno in corsa). Invece, nella tranquilla Macerata, un criminale fa di tutto per rendere chiara la cornice ideologica entro la quale ha compiuto una strage (nel Codice Penale non esiste «tentata», al massimo «aggravata» dall’odio razziale).
Eppure quei misfatti sono trattati con puntigliose remore linguistiche. Con la massima cautela tassonomica. Con tutte le circollocuzioni del caso e le perifrasi utili a circumnavigare il campo semantico dell’unica parola che ne chiarisce inequivocabilmente il senso, la storia, l’attualità, e la matrice elementare. Fascista. Fasci-sta. A buon intenditor.