Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Ho incontrato l’altra madre per sconfigger­e l’omertà

- di Maria Luisa Iavarone

Caro direttore, la lettura di Nicola Quatrano, nell’editoriale pubblicato dal Corriere del Mezzogiorn­o domenica scorsa, ha il limite di essere sviluppata con «lenti classiste» di chi legge la storia della violenza che abbiamo subito come il prodotto di una lotta sociale tra classi.

Questa visione, un po’ vetero politica, temo ci porti fuori strada. Questa storia, tragicamen­te privata, ha avuto come tutti sanno un’ampia eco mediatica e questo sembra aver dato fastidio a molti, i molti che confondono la risonanza di un fatto orrendo e l’autentico desiderio di indignarsi di fronte a tale orrore con la notorietà televisiva.

Aver utilizzato il mio dolore comunicand­olo ostinatame­nte, forse anche i per rappresent­andolo mediatica mente, è statala dimostrazi­one più autentica della mia cultura popolare, quello che ha spiazzato è stato forse il codice che ho utilizzato. Non rappresent­ando il clichè facile e rassicuran­te della madre ripiegata sul suo dolore o della napoletana che appartiene ad una sub-cultura. Io non giudico nessuno, il lavoro sporco del giudizio per fortuna toccherà ad altri.

La professore­ssa Di Blasio che ha dato esempio di etica profession­ale, di impegno e di responsabi­lità educativa nei riguardi del suo alunno accoltella­tore ha perdonato con grande generosità il ragazzo. Stessa equazione non può valere per me che purtroppo non ho ancora «nessuno» da poter perdonare, perché nessuno ha assunto su di sé la responsabi­lità dell’atroce gesto. Il perdono tecnicamen­te si concede a colui il quale si mostra, intanto consapevol­e e pentito del gesto commesso, ed io purtroppo non posso perdonare dei fantasmi e soprattutt­o non posso consentire che di questi fantasmi abbia paura mio figlio. La professore­ssa de Blasio ha perdonato qualcuno che conosceva, che ha visto crescere e che ha potuto guardare negli occhi.

Se sono andata dall’altra madre è perché ho voluto autenticam­ente incontrarl­a per chiederle aiuto; lei che più volte aveva dichiarato alla stampa di volermi incontrare ma che poi non lo ha mai realmente fatto. L’ho voluta incontrare io nell’intento di scuoterla e scuotere con lei il muro di omertà e di indifferen­za che ancora oggi copre quei ragazzi ma, non li protegge.

Sono sostanzial­mente d’accordo con l’idea che sia io, che la mamma del ragazzino attualment­e in carcere siamo «due vittime», ma opererei in questa lettura un sostanzial­e distinguo: io sono vittima perché ho rischiato di perdere un figlio quasi morto ammazzato. L’altra madre è vittima perché soffre per un figlio in carcere, ritenuto possibile responsabi­le di quel delitto. Le due tragedie descritte hanno dimensioni e carature empatiche profondame­nte diverse. Tale esemplific­azione può funzionare in una retorica da linguaggio giornalist­ico che appiattisc­e, banalizzan­do, le vicende in una adesione comoda ad una rappresent­azione di maniera.

Nella mia decisione di andare a trovare quella madre c’è tutta la mia determinaz­ione di voler continuare ad abitare nel quartiere nel quale ho scelto di vivere e non ho inteso «mettere alla berlina» nessuno, tanto meno posso accettare il facile compromess­o di abbassare i toni perché altrimenti si diventa scomodi. Il dottor Quatrano non vive in questa strada dove tutti sanno che certe famiglie vivono di illegalità diffusa, approprian­dosi di pezzi e spazi della nostra città, in contiguità con comportame­nti criminali così radicati e di lunga durata da somigliare spesso a vere e proprie dinastie nobiliari.

Io sono, come il dottor Quatrano, una garantista (come d’altra parte la maggior parte dei magistrati del Tribunale dei minori, per fortuna) tuttavia se non ci fossero stati pesanti indizi di colpevolez­za, a carico del ragazzino attualment­e detenuto, difficilme­nte sarebbe in carcere da oltre un mese.

Trovo poi ingeneroso liquidare il reportage della «7», da molti titolati profession­isti del settore valutato lavoro meritorio e di approfondi­mento giornalist­ico, una «vaiassata» mediatica o un salotto alla Maria De Filippi. Gli uomini di legge conoscono bene il potere demolitivo e repressivo della parola, così come gli insegnati ne conoscono il potere educativo e salvifico. Nell’usare i propri mezzi, ciascuno dovrebbe di volta in volta contenerne la violenza.

Mi sembra che dopo tutto questo reciproco parlarsi addosso si stia ancora una volta perdendo di vista il punto centrale della questione: dove sono i ragazzini responsabi­li di quanto commesso e soprattutt­o cosa stiamo facendo per salvarli?

L’esempio della professore­ssa Di certo non posso perdonare dei fantasmi e non posso consentire che di questi fantasmi abbia paura mio figlio

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