Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ho incontrato l’altra madre per sconfiggere l’omertà
Caro direttore, la lettura di Nicola Quatrano, nell’editoriale pubblicato dal Corriere del Mezzogiorno domenica scorsa, ha il limite di essere sviluppata con «lenti classiste» di chi legge la storia della violenza che abbiamo subito come il prodotto di una lotta sociale tra classi.
Questa visione, un po’ vetero politica, temo ci porti fuori strada. Questa storia, tragicamente privata, ha avuto come tutti sanno un’ampia eco mediatica e questo sembra aver dato fastidio a molti, i molti che confondono la risonanza di un fatto orrendo e l’autentico desiderio di indignarsi di fronte a tale orrore con la notorietà televisiva.
Aver utilizzato il mio dolore comunicandolo ostinatamente, forse anche i per rappresentandolo mediatica mente, è statala dimostrazione più autentica della mia cultura popolare, quello che ha spiazzato è stato forse il codice che ho utilizzato. Non rappresentando il clichè facile e rassicurante della madre ripiegata sul suo dolore o della napoletana che appartiene ad una sub-cultura. Io non giudico nessuno, il lavoro sporco del giudizio per fortuna toccherà ad altri.
La professoressa Di Blasio che ha dato esempio di etica professionale, di impegno e di responsabilità educativa nei riguardi del suo alunno accoltellatore ha perdonato con grande generosità il ragazzo. Stessa equazione non può valere per me che purtroppo non ho ancora «nessuno» da poter perdonare, perché nessuno ha assunto su di sé la responsabilità dell’atroce gesto. Il perdono tecnicamente si concede a colui il quale si mostra, intanto consapevole e pentito del gesto commesso, ed io purtroppo non posso perdonare dei fantasmi e soprattutto non posso consentire che di questi fantasmi abbia paura mio figlio. La professoressa de Blasio ha perdonato qualcuno che conosceva, che ha visto crescere e che ha potuto guardare negli occhi.
Se sono andata dall’altra madre è perché ho voluto autenticamente incontrarla per chiederle aiuto; lei che più volte aveva dichiarato alla stampa di volermi incontrare ma che poi non lo ha mai realmente fatto. L’ho voluta incontrare io nell’intento di scuoterla e scuotere con lei il muro di omertà e di indifferenza che ancora oggi copre quei ragazzi ma, non li protegge.
Sono sostanzialmente d’accordo con l’idea che sia io, che la mamma del ragazzino attualmente in carcere siamo «due vittime», ma opererei in questa lettura un sostanziale distinguo: io sono vittima perché ho rischiato di perdere un figlio quasi morto ammazzato. L’altra madre è vittima perché soffre per un figlio in carcere, ritenuto possibile responsabile di quel delitto. Le due tragedie descritte hanno dimensioni e carature empatiche profondamente diverse. Tale esemplificazione può funzionare in una retorica da linguaggio giornalistico che appiattisce, banalizzando, le vicende in una adesione comoda ad una rappresentazione di maniera.
Nella mia decisione di andare a trovare quella madre c’è tutta la mia determinazione di voler continuare ad abitare nel quartiere nel quale ho scelto di vivere e non ho inteso «mettere alla berlina» nessuno, tanto meno posso accettare il facile compromesso di abbassare i toni perché altrimenti si diventa scomodi. Il dottor Quatrano non vive in questa strada dove tutti sanno che certe famiglie vivono di illegalità diffusa, appropriandosi di pezzi e spazi della nostra città, in contiguità con comportamenti criminali così radicati e di lunga durata da somigliare spesso a vere e proprie dinastie nobiliari.
Io sono, come il dottor Quatrano, una garantista (come d’altra parte la maggior parte dei magistrati del Tribunale dei minori, per fortuna) tuttavia se non ci fossero stati pesanti indizi di colpevolezza, a carico del ragazzino attualmente detenuto, difficilmente sarebbe in carcere da oltre un mese.
Trovo poi ingeneroso liquidare il reportage della «7», da molti titolati professionisti del settore valutato lavoro meritorio e di approfondimento giornalistico, una «vaiassata» mediatica o un salotto alla Maria De Filippi. Gli uomini di legge conoscono bene il potere demolitivo e repressivo della parola, così come gli insegnati ne conoscono il potere educativo e salvifico. Nell’usare i propri mezzi, ciascuno dovrebbe di volta in volta contenerne la violenza.
Mi sembra che dopo tutto questo reciproco parlarsi addosso si stia ancora una volta perdendo di vista il punto centrale della questione: dove sono i ragazzini responsabili di quanto commesso e soprattutto cosa stiamo facendo per salvarli?
L’esempio della professoressa Di certo non posso perdonare dei fantasmi e non posso consentire che di questi fantasmi abbia paura mio figlio