Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Lorito (Federico II): nell’agroalimentare si innova poco, ma esistono casi eccellenti
Lorito: abbiamo produzioni consolidate La mozzarella è una nostra eccellenza
«Oggi la Campania non NAPOLI appare particolarmente “contaminata” nonostante l’intensa attività agricola e l’elevato livello di urbanizzazione, specialmente se consideriamo le sostanze più pericolose, come i cosiddetti interferenti endocrini, che agiscono anche a concentrazioni molto basse e alterano le nostre funzioni ormonali. In realtà dopo l’esplosione del fenomeno della Terra dei Fuochi, oggi la nostra regione, almeno per alcuni aspetti ambientali, è la più controllata d’Italia e forse d’Europa». Sospiro di sollievo. La Campania, dunque, è ancora in buona parte felix. A rassicurarci sul punto è un esperto in materia, il professore Matteo Lorito, direttore del dipartimento di Agraria dell’Università Federico II di Napoli, protagonista del prossimo incontro del ciclo “Come alla Corte di Federico II”, che lo vedrà a colloquio con il direttore del
Corriere del Mezzogiorno Enzo d’Errico su un tema complesso e di grande attualità, già al centro dell’Expo 2015: «Nutrire il pianeta».
Professore, com’è uscita l’Italia da questo confronto con gli altri Paesi del mondo. Siamo abbastanza attenti nel “nutrire” la nostra terra?
«Nutrire il pianeta significa non solo nutrire i suoi abitanti ma anche i suoi ecosistemi naturali, tutelando le funzioni che sostengono la vita dell’uomo e la produzione del cibo. Queste funzioni forniscono i cosiddetti “servizi ecosistemici” come ad esempio la fertilità del suolo, la depurazione dell’acqua e dell’aria, il controllo delle infestazioni, l’impollinazione necessaria alla fruttificazione. È stato calcolato che i servizi erogati dagli ecosistemi italiani valgono circa 70 miliardi di euro l’anno».
Dall’«addomesticazione» dei cereali di circa 12mila anni fino alla grande produzione agricola di oggi. Come ci siamo arrivati?
«I cereali sono e restano, specialmente per le civiltà “occidentali” i nostri principali compagni di viaggio. Nei primi del 900 furono avviate grandi innovazioni sulla selezione e realizzazione di nuove varietà di cereali, che portarono poi alla cosiddetta “rivoluzione verde” degli anni 50-60. Uno dei pionieri fu un genetista italiano, Nazzareno Strampelli, che tramite incroci selezionò nuove varietà di grano che maturavano prima dell’arrivo del caldo estivo, non si piegavano e producevano di più. Una di queste varietà fu poi utilizzata da Norman Borlaug, il “padre” della rivoluzione verde, premio Nobel nel 1970, che insieme ad altri scienziati riuscì a produrre grani e riso al altissima resa consentendo di raddoppiare o triplicare la resa globale: centinaia di milioni di persone uscirono da uno stato di sottoalimentazione, si ridussero analfabetismo, tensioni sociali, conflitti. In realtà ci fu una contemporanea “rivoluzione chimica” con l’avvento di potenti agrofarmaci e fertilizzanti di sintesi, il che ha determinato, nel tempo, la produzione di cibo in abbondanza, almeno virtualmente sufficiente per tutti. La successiva “rivoluzione chimica” ha poi determinato, nel tempo, la produzione di cibo in abbondanza, almeno virtualmente sufficiente per tutti».
Una rivoluzione che di certo non è stata a costo zero per l’ambiente.
«Poco meno di 3 miliardi di chilogrammi di pesticidi usati
al mondo annualmente. Senza contare l’enorme quantità di fertilizzanti di sintesi e gli inquinanti dovuti alle altre attività umane. Di questi, alcuni sono dichiaratamente pericolosi anche a basse dosi».
Quali sono le sfide che ci attendono per agire su queste criticità?
«Meno chimica, anche a seguito di importanti innovazioni legislative, e nuovi mercati. Consapevolezza del consumatore, che comincia a valutare il costo ambientale di quello che mangia ed è più attento alla sostenibilità e agli alimenti prodotti localmente».
Lei parlava di un consumatore più consapevole. Oggi è un gran parlare di cibo “bio”. C’è da fidarsi?
«Il biologico o organic indica cibo prodotto secondo un preciso disciplinare che limita o elimina l’uso della chimica nella produzione. Un’azienda certificata bio non solo non deve usare agrofarmaci non consentiti ma deve controllare lo smaltimento dei rifiuti e dei reflui, usare servizi poco inquinanti, monitorare continuamente prodotti e ambiente. L’Italia è il paese del bio, primato che in Europa ci contendiamo con la Spagna, quindi mangiare bio quanto meno significa sostenere l’agroeconomia nazionale. Il bio soffre di diverse criticità dovute alle frodi, all’eccesso di burocrazia, alla difficolta per alcuni prodotti di accesso al mercato, la difficoltà a reperire sementi e mangimi bio, scarsità di formazione specifica degli operatori e trasferimento tecnologico dal mondo della ricerca. Credo che l’approccio migliore sia quello di alimentarsi nella maniera più differenziata possibile».
Produzione agricola e tecnologia, le aziende campane sono al passo con i tempi?
«In senso generale, la situazione non è particolarmente positiva: non è facile introdurre innovazione in sistemi di produzione consolidati. Ma esistono eccellenze nella produzione di pomodori, carciofi e insalatine; nel settore vitivinicolo e ovviamente nella produzione della pasta, con aziende quasi completamente automatizzate. E ci sono casi di eccellenza anche nelle produzioni animali, come nell’allevamento delle bufale da latte:
riusciamo a produrre un formaggio fresco, la mozzarella, che nella stessa giornata di produzione vendiamo ad un costo per chilo più alto di quello di un altro grande formaggio, il parmigiano, che però richiede 20 mesi di invecchiamento. La mozzarella è un’eccellenza anche in termini di marketing. I punti deboli sono la limitata diffusione dei Consorzi, o meglio di Consorzi veramente attivi».
E i nostri punti di forza?
«Gli enti di ricerca Campani, tra cui le Università che combinano ricerca e formazione, sono state tradizionalmente e continuano ad essere un motore dell’innovazione nell’agroalimentare. Alcune delle tecnologie che risolveranno il dilemma di riuscire a nutrire il pianeta in maniera sostenibile sono state sviluppate nei laboratori campani. Nella nostra regione ci sono ottimi percorsi formativi, alcuni dei quali vantano quasi 150 anni di storia con la prima Reale Scuola di Agricoltura dell’Italia Meridionale attivata presso l’Università di Napoli Federico II nel complesso della Reggia di Portici. Pensi che le piante di carote dell’Agraria di Portici sono state spedite sulla stazione spaziale internazionale, per studiare nuove forme di agricoltura decisamente “fuori suolo”».
La nostra regione non appare contaminata in maniera eccessiva Dopo il caso della Terra dei fuochi è la più controllata