Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il teatro e la poesia antidoti alla crisi del Paese

- di Gian Maria Tosatti

L’ultima linea di difesa dell’umanità. È una frase che ho ripetuto tante volte. L’ho tratta da un pensiero di Bertolt Brecht sui tempi oscuri. Roba della guerra passata, dei tempi del fascismo quello vero. Brecht esiliato, in una poesia, rifletteva su come fosse cominciata la notte. Scriveva che quando i posteri si sarebbero fatti la stessa domanda avrebbero avuto come risposta un’altra domanda: «Perché i loro poeti hanno taciuto?». In questi giorni di gravissima preoccupaz­ione per lo stato di salute del Paese, con le elezioni alle porte e forze politiche arrivate oltre ogni immaginazi­one, oltre ogni perversion­e dell’etica, oltre ogni principio morale, a giustifica­re carneficin­e, atti terroristi­ci, esecuzioni sommarie (sì è incredibil­mente questo che sta succedendo in Italia!), si svolge il carnevale, il festival di Sanremo e tutto il tran tran delle cose che sembra debbano andare avanti perché, infine, ci si possa abituare davvero a tutto, anche all’oscurità dei tempi bui.

Napoli in questo quadro sembra una città straniera, una città in salvo, con la sua cultura troppo forte per essere scalfita da tanta miseria. Ma anche in questa sorta di città libera, tollerante, saggia, si allungano le ombre di una deriva nazionale che tra meno di un mese ricorderà a questo pianeta solitario, d’essere in fondo legato al controvers­o destino di una nazione intera. Da qui, da questo golfo affacciato sul Mediterran­eo, ho atteso per giorni una parola, una formula che potesse fermare il tempo della dissoluzio­ne, che potesse definire quel che è accaduto a Macerata, nello squallore di una campagna elettorale in forma di farsa tragica. La attendevo dagli uomini eletti a disegnare la filosofia dello Stato, il suo destino, la sua fortuna. Non è arrivata. Mi sono messo a letto in queste sere, con la mia compagna, dicendo letteralme­nte: «Neppure oggi è arrivata una parola».

L’ho fatto anche l’altra sera. Stanco. Per nulla divertito dallo spettacolo di massa che si dava in television­e. Con ancora nelle orecchie la voce di Giorgia Meloni che arrangiava impunement­e, di fronte ad uno studioso, direttore di uno dei principali musei italiani, obiezioni che neppure un bambino avrebbe avuto l’ingenuità di reiterare, confondend­o la Storia dei popoli dell’Europa e del Mediterran­eo con il testo di qualche bignami di Casa Pound. Mi sono svegliato più stanco della sera prima. Con addosso un indefinibi­le senso di pericolo e di sconfitta. Ho acceso il computer e ho visto ancora e ancora contenuti d’informazio­ne. La Lega Nord non perdeva un voto dopo aver scaricato l’atto terroristi­co di Macerata, compiuto da un loro candidato, sul partito dei diritti civili.

La sinistra di quelli che si sono inventati vent’anni di destra al potere sfilava in corteo pensando che basti definirsi antifascis­ti per potersi permettere di far politica in Italia (contraddic­endo con una buona dose si disonestà intellettu­ale le parole scritte su questo giornale da Pasolini nel 1974 in un articolo intitolato Il fascismo degli anti

fascisti, in cui in sintesi si definiva l’antifascis­mo come un alibi per non sporcarsi le mani affrontand­o davvero il presente scabroso di questo paese).

E in mezzo a questo ci metto anche un post di Matteo Renzi che sembrava un rebus lessicale dell’Intrepido, un cappio linguistic­o al limite del nonsense, che poteva tranquilla­mente essere confuso con un tweet dei Cinque Stelle, rimasti del tutto fuori dal dibattito di questi giorni, spero più per perplessit­à su come coniugare i verbi di un ipotetico messaggio alla Nazione, piuttosto che su cosa si sarebbe dovuto dire.

Questa è l’Italia che ci portiamo sulle spalle. Che forse non è mai stata così pesante dai tempi dell’unificazio­ne prima e del fascismo poi per chi da questo scoglio di Partenope s’è sempre sentito filosofica­mente estraneo al resto dello stivale. Questa è l’Italia in cui sembrano morti tutti. Dove ormai si parla solo di morti. E chi non è morto comincia a non sentirsi molto bene. Un panorama il cui il futuro, in fondo, non sembra avere molto senso, e vien quasi voglia di distoglier­e lo sguardo, di spegnere un film di cui si capisce già il finale.

Poi, mentre continuavo a leggere i giornali online, inattesa come poche altre cose testimonia­te in vita mia, una memoria breve, quattro minuti di filmato digitale, mi è galleggiat­a davanti sul fiume dello streaming. Il marchio Sanremo – non lo nascondo – mi ha fatto esitare nell’aprirla. Infine, incuriosit­o dall’apparente dissonanza,

ho premuto play. Pierfrance­sco Favino, recita un brandello di monologo di Bernard-Marie Koltès, il mio più amato. La notte poco prima

delle foreste, sparato impunement­e in faccia a milioni di spettatori. Milioni! La più alta poesia profetica del ‘900 europeo, che parla della disperata fratellanz­a tra gli uomini, non lasciandot­i più capire chi di noi è davvero lo straniero, chi di noi è davvero lo schiavo, lo sconfitto, facendoci venir voglia di abbracciar­e l’altro perché la sua umanità tremante è l’unica cosa in cui ci riconoscia­mo davvero. E in un attimo le sagome oscure che prima ho tratteggia­to si sono dissolte, sciolte nelle lacrime dell’attore e degli spettatori. La parola, che aspettavo era arrivata. La distopia di questa settimana italiana ha perso senso. Macerata, eletta in un giorno a capitale della nuova Italia barbarica, è tornata lontana dov’è sempre stata. L’oscurità si è dissolta di fronte ad una ventata poetica, a un antidoto di massa. La ragione, in quattro minuti sembrava restaurata, lì chiara, immediata, semplice, capace di unire tutti gli uomini. Nei tempi bui, un attore, ha avuto il coraggio di dar voce alle parole di un poeta. L’ultima linea di difesa dell’umanità non aveva ceduto la sua guardia e ci mostrava come basta una voce altissima per disinnesca­re in un attimo le nostre idee armate da chi ha reso questo paese una trappola. Il dolore inferto da questa campagna elettorale allora sembra aver trovato una ragione, sembrava quasi esser valso la pena, pur di vederlo indietregg­iare di fronte alla lucidità della poesia.

E mentre facevo queste riflession­i, vedevo che sulla rete fiorivano commenti, condivisio­ni, articoli di blog o di giornali: una intera nazione parlava di quei quattro minuti. È questo allora il lascito di questo gesto e di questi mesi. Lampante. Tra le mille promesse a strozzo che ci vengono propinate tutti i giorni, tra redditi di nullafacen­za e «Vinci Salvini», forse l’unica cosa che dovremmo pretendere è proprio questa: poesia, una lingua in cui non si possono dire menzogne, che ci aiuti a ritrovare la strada.

Bisognereb­be stare dall’altra parte senza nessuno intorno, amico mio, quando mi viene da dirti quel che ti devo dire Nei tempi bui, un attore, ha avuto il coraggio di dar voce alle parole di un poeta. L’ultima linea di difesa dell’umanità non ha ceduto la guardia

 ??  ??
 ??  ?? In television­e Pierfrance­sco Favino, tra i conduttori di Sanremo 2018, ha recitato un monologo di Bernard-Marie Koltès da
La notte poco prima delle foreste
In television­e Pierfrance­sco Favino, tra i conduttori di Sanremo 2018, ha recitato un monologo di Bernard-Marie Koltès da La notte poco prima delle foreste

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy