Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA GRANDE QUESTIONE DELLA VERITÀ
Non siamo più al tempo di John Milton, padre della libertà di stampa, quando si pensava che nello scontro tra la Verità e il Falso, alla fine la prima avrebbe comunque vinto. «In a free and open encounter, Truth will vin», diceva l’autore de l’Areopagitica. E neanche siamo al tempo di Thomas Jefferson, quando i principii di Milton furono costituzionalizzati. Oggi è tutta un’altra storia. I punti di vista si sono moltiplicati. E così gli strumenti — i media — per pubblicizzarli. Per non parlare dei diritti individuali e degli interessi legittimi. Tutto si sta dilatando. E tutto, in qualche misura, ci sta sfuggendo. In questo contesto, non è più detto che la Verità alla fine abbia naturalmente la meglio. Anzi, addirittura si comincia a temere l’opposto. Inoltre, pensavamo che questi fossero problemi quasi esclusivi dei russi e degli americani, alle prese con Putin e Trump; e che la disputa sulle fake news e sulla post-verità fosse, per noi, al novanta per cento teorica e che per il resto ci toccasse solo di striscio. E invece no. L’ultima inchiesta sui rifiuti, a dieci anni dall’emergenza che mise in ginocchio Napoli e la Campania, non solo ci ricorda che da quel tunnel in realtà non siamo ancora usciti; che le ecoballe sono ancora quasi tutte lì dov’erano; che gli impianti di smaltimento sono rimasti insufficienti; e che ogni anno dalle regioni del Centro-Sud escono più di 400 mila tonnellate di rifiuti organici, destinati al Nord, con un costo di quasi 60 milioni di euro.
Ma ci avverte anche che la grande questione della Verità ci riguarda nel modo più assoluto. E che qui addirittura si complica per una sovrapposizione allo stato inestricabile tra inchiesta giornalistica e inchiesta giudiziaria. Con il paradosso, tra l’altro, di una magistratura che prima legittima i giornalisti, facendo scattare, sulla base del loro lavoro, gli avvisi di garanzia per i politici; e poi li «avvisa» a loro volta.
Da una parte, dunque, i colleghi di Fanpage che portano il giornalismo oltre i confini protetti delle redazioni, alla ricerca di Verità scomode; ma che inevitabilmente impongono una riflessione su quale debba essere il nuovo codice deontologico. Dall’altra, una politica che ancora una volta si fa cogliere, se non con le mani, sicuramente con la testa nel sacco: tra l’altro, perché il figlio del governatore, assessore a Salerno, deve occuparsi di rifiuti pur non avendo alcuna competenza in materia? In mezzo, infine, la magistratura, i cui tempi appaiono ora troppo lenti, ora troppo accelerati rispetto al bisogno di Verità. E a proposito: si arriverà mai a una Verità processuale? O, come è già tante volte successo, alla fine della storia dovremo accontentarci di una Verità del tutto coincidente con i pregiudizi preesistenti?
Il dato costante, anche nel caso dell’inchiesta napoletana, è però un altro. Sta nel fatto che in tutti sta prevalendo una pericolosa tendenza ad essere giudicati per i risultati e non per le procedure. I politici, e De Luca è per sua scelta uno dei massimi esponenti di questa scuola, vorrebbero meno lacci e laccioli per dimostrare la propria efficienza, e al diavolo la perdita di tempo. I magistrati portano spesso a loro difesa bilanci storici su intere epoche (Tangentopoli) piuttosto che rendiconti puntuali sulle singole inchieste, molte rimaste a mezz’aria. E anche i giornalisti, specialmente quelli dell’ultima generazione, puntano alla Verità ad ogni costo, ricorrendo perfino agli agenti provocatori. Ma a conti fatti le procedure sono importanti per tutti. E lo sono a maggior ragione ora che non siamo più al tempo di Milton e di Jefferson. Ora che l’esito del conflitto tra Verità e Falso non è più scontato come a quel tempo. Ora che tutto rischia di sfuggirci di mano.