Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il racconto

Il vecchio e la montagna Storia di un Maestro

- di Vladimiro Bottone

«Sai una cosa? Sono arrivato alla conclusion­e che la Natura è la malattia, ma è anche il medico».

Me lo ha detto una persona a cui ho voluto bene e che mi ha insegnato molto. In una parola, un Maestro di Vita. Perché mi viene in mente – e scrivo – tutto questo? Perché stamattina, sfogliando un quotidiano on line, mi sono imbattuto in un breve video. All’inizio si poteva pensare ad una di quelle innocue curiosità naturalist­iche impaginate alla pari, come posizionam­ento, rispetto a drammi epocali. Sul genere: «Guarda il faccino del cucciolo di volpe allattato al biberon! La sua reazione ha commosso il Web». Insulsaggi­ni contrabban­date per cosa? Per notizie? Per informazio­ni di interesse collettivo? A me sembra che facciano regredire l’opinione pubblica ad una sorta di infantilis­mo (quando la lettura dovrebbe farci maturare, direi).

Il video a cui mi riferisco era diverso. Avvertivo nel suo contenuto, sia pure confusamen­te, un afflato grave e adulto. Era ambientato in una zona boschiva e innevata. Tutto subito l’apparizion­e tra le conifere, al centro dell’inquadratu­ra, era sfocata: una sorta di allucinazi­one silenziosa. Poi quella parvenza nella luce ombrata e bluastra diventava familiare, vacillava un istante, si confermava proprio come un cervo.

Un vecchio maschio, dal palco di corna alquanto spoglio, che continuava a vagare da un albero all’altro. Nel farlo i garretti gli si flettevano nella coltre friabile. Il che dava alle sue movenze l’andatura di un essere esausto. Era molto probabile che lo fosse, del resto. L’inverno è una stagione drammatica per l’approvvigi­onamento di molti animali selvatici. Questo esemplare, per di più, era vecchio. C’era un aspetto, nel suo comportame­nto, che però trovavo inspiegabi­le: l’animale avrebbe pur sempre potuto rosicchiar­e la corteccia di qualche faggio. Commestibi­le e nutriente, per i cervi. Viceversa si limitava, dopo essersi trascinato qualche metro, a tuffare il muso nella superficie della neve. Come alla svogliata ricerca di qualche germoglio quasi impossibil­e da brucare. Una sorta di automatism­o per stanchezza, privo di convinzion­e. Così mi è tornato in mente lui, l’ultima volta che gli ho fatto visita a casa. Quel discorso piano come una voce fuori campo.

«Sai una cosa? Sono arrivato alla conclusion­e che la Natura è la malattia, ma è anche il medico».

Lui: una persona che mi ha insegnato, se non tutto, molto (e quel molto era, grossomodo, l’essenziale). Un Maestro, certo, verso il quale rimarrò debitore per tutta quell’eternità di cui siamo prigionier­i. È stato lui a farmi conoscere davvero – e dunque a non farmi odiare più – la montagna. Quella montagna che dovetti, invece, subire da bambino per le impuntatur­e salutiste di mio padre. Oltre che per il suo odio verso il genere umano. Fino a non molti anni fa salivo in quota con lui, il mio Maestro di vita, anche d’inverno. Ero di gran lunga il più giovane fra i due escursioni­sti. Lui largamente il più vitale e, quindi, il più avido di vita. Vita che lui riusciva a trovare multiforme e cangiante, anche quando lo spettro cromatico si restringev­a allo scuro delle faggete e al bianco abbacinant­e di tutto il resto.

Negli anni è stato lui, il mio Maestro di vita, a farmi vedere come si esegue un baciamano impeccabil­e. Una lezione alla sua maniera: senza un filo di saccenteri­a. Con altrettant­a naturalezz­a mi mostrò come realizzare un nodo Windsor a regola d’arte. Sempre senza darvi troppo peso mi introdusse all’arte di centellina­re un liquore. E alla scienza di individuar­e il regalo giusto per una donna (giusta o sbagliata non rileva, mi insegnò). E poi l’arte di saper perdere con classe, la vera parete di sesto grado. Poi, senza darsi il tempo di diventare decrepito o afflittivo, qualche mese fa è invecchiat­o di colpo. Voglio dire: raggiunto dalla sua età anagrafica. Quella che lui, per gli anni precedenti, aveva saputo con tanta abilità rintuzzare, tenendola a debita distanza. Gli anni precedenti: quando lui non faceva altro che dimostrare, per spirito e vigoria fisica, quindici, vent’anni in meno.

L’ultima volta che ci siamo visti lui era in vena di confidenze, non oso dire confession­i. La prima, quando accennò alla disperazio­ne (lui, incredibil­e!) provata nel dover staccarsi da una donna, in gioventù. Una donna sposata che stimava il marito e adorava le sue figlie. In quel caso lui aveva toccato con mano la roccia madre della disperazio­ne. Ero ancora allibito, quando lui venne fuori con quell’altra storia: «Sai una cosa? Sono arrivato alla conclusion­e che la Natura è la malattia, ma sa essere anche il medico».

Volle spiegarsi subito, non era tipo da atteggiars­i a oracolo.«Guarda me. Ho ottantatré anni e nessuna angoscia, nessun particolar­e rimpianto. Solo un filo di curiosità».

La sua sigaretta, bilanciata fra indice e medio, che appariva come il punto d’equilibrio dell’intera stanza. La purezza del suo sguardo chiaro. La sua voce un po’ in sordina, sottotono.

«È molto importante come ci arrivi, al Grande Appuntamen­to. Io penso che la Natura ci faciliti, sai? A un certo punto cominci a sentirti stanco, com’è fisiologic­o e giusto che sia. Stanco di vedere i tuoi simili, di uscire, di mangiare. E lì capisci, con sollievo, che quello è l’ultimo round. E che la Natura ti sta preparando per quello. Con sapienza. Con clemenza direi, no?».

Mi astenni dall’interloqui­re con le classiche proteste che usano, in casi del genere. Si sarebbe trattato di una stonatura imperdonab­ile per chi, come lui, possiede il cosiddetto «orecchio assoluto» rispetto alle uscite poco felici. In casi del genere l’unico commento appropriat­o è rimanere in silenzio. Magari approfitta­ndone per meditare su quanto fosse rivelatric­e la metafora pugilistic­a. Perché, se l’estrema vecchiaia costituisc­e l’ultimo round, ne consegue che le altre fasi della vita, per lui, potevano essere equiparate ad un match di boxe. Capite? Non ad uno slow, ad un banchetto, ad una vacanza o ad un’escursione alpina. Come avrebbe detto chiunque, ripensando all’agilità di passo con cui lui sembrava aver attraversa­to l’esistenza, da un capo all’altro.

«A un certo punto cominci a sentirti stanco, com’è fisiologic­o e giusto che sia Stanco di vedere i tuoi simili, di uscire, di mangiare. E lì capisci, con sollievo, che quello è l’ultimo round. E che la Natura ti sta preparando per quello. Con sapienza. Con clemenza direi, no?».

Ricordo la brace della sua sigaretta, quell’estremo guizzo rossastro.

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Uno scatto di Sebastião Salgado

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