Corriere del Mezzogiorno (Campania)
MONTANINI «IL MIO ELOQUIO DI PERDENTE»
I suoi monologhi sono un caso nazionale e gli hanno creato problemi in tv Maestro della Stand up comedy dice: «Napoli è come New York Difficile farvi ridere se non si è partenopei, ma a me è sempre andata bene»
Un’incursione rapida e tagliente, da guastatore delle italiche coscienze, quella del «caso» Giorgio Montanini stasera alle 21 al Teatro Nuovo. Il maestro della Stand up Comedy nostrana, quel cabaret all’inglese, da recitare in piedi come su uno sgabello di speaker’s corner a Hyde Park, presenta infatti l’Eloquio di un perdente. Un titolo-manifesto per chi, a causa della sua dissacrante comicità, è stato costretto ad allontanarsi sia da Mediaset che dalla Rai.
Stasera è a Napoli, che accoglienza si aspetta dal pubblico di una città così teatrale?
«È la quarta volta che torno qui. E smentisco subito un giudizio di tanti miei colleghi non napoletani. E cioè che far divertire questa gente è quasi impossibile, vista la formazione che va dalle maschere tradizionali dei grandi del passato fino allo stile di Made in Sud, Alessandro Siani e così via. Io, invece, ho sempre avuto un’accoglienza splendida, con interazioni e ritmi che sembravano già concordati».
Come lo spiega?
«I miei spettacoli sono molto diversi da ogni modello e quindi non soffrono diffidenze o pregiudizi. Anzi sollecitano una curiosità, che diventa perfetto affiatamento quando il dialogo si sviluppa con spettatori abituati allo scambio di battute improvvisate. Anche perché qui nessuno si scandalizza. Napoli è un po’ come New York, una città in cui c’è di tutto, anche dal punto di vista etnico e sociale, e dove tutto può accadere. Perciò è sempre stata una città pronta più di altre ad accogliere le suggestioni delle avanguardie, intese non come concetto storico, ma come capacità
di produrre il nuovo».
Ma allora chi è il «perdente» del suo «Eloquio»?
«Il comico stesso, uno “sfigato”, che affida la sua frustrazione alla comicità intesa come catarsi sua e del pubblico. Ma l’idea che un comico possa cambiare il mondo è pura velleità, specchio di una fragilità che non ho mai assecondato anche quando, a sentire le cose che dicevo, in molti mi hanno invitato a darmi alla politica».
Vuol dire che chi fa satira non può schierarsi?
«Sì. Credo che la satira, come l’arte in genere, sia sempre rivoluzionaria e non conservatrice, ma deve anche essere libera di poterle raccontare a tutti, quando l’occasione lo richiede».
Eppure lei non fa mai espliciti riferimenti a questo a quel politico.
«Perché oggi con la democrazia elettiva, la responsabilità non è di questo o quel leader, ma piuttosto di tutti noi che lo abbiamo votato. Spesso per piccoli interessi personali o per mancanza di coraggio. E questa è la sorpresa più dura che riservo alla gente. Perciò preferisco soffermarmi su situazioni più ampie che su singoli episodi».
Fa un esempio?
«Sì, la paura. Di cosa? Ma che il potere di acquisto di noi occidentali possa andare sempre più giù, non consentendoci di mantenere i nostri standard di benessere. Paura di una crisi economica, ma che c’è sempre stata a partire dagli anni ’70, che non ci fa rischiare la fame, come accade altrove, ma piuttosto la rateizzazione di un Suv o una vacanza ai Caraibi. Verità che colpiscono tutti e in modo molto diretto».