Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il «viaggio» di De Sanctis
Il voto al tempo della crisi. Cosa cambierà? E, soprattutto, è pensabile che qualcosa cambi? Il pessimismo mai come in questo dilemma è della ragione. Visto da Napoli e spingendo lo sguardo fino ai presepi feriti a morte dal terremoto, lo scenario mette i brividi: quando il degrado non è fisico è fisico e morale – cioè è più grave - come i recenti episodi dell’inchiesta di Fanpage hanno confermato.
La Campania resta una delle maglie nere d’Italia ma nei palazzi della politica e nel chiasso assordante dei social nessuno mostra di accorgersene. Non c’è un briciolo di idea, bastano due ore di nevischio per paralizzare i collegamenti e autorizzare quattro giorni senza scuola sapientemente saldati, tra l’altro, con il ponte elettorale che ne aggiungerà altri quattro, quanto non sette. Festa, farina e scudetto: non si pensa ad altro. Napoli è la sintesi della schizofrenia del Belpaese. «La degenerazione dei partiti politici è un fatto compiuto — ha dichiarato al Corriere del Mezzogiorno il sociologo Gilberto Antonio Marselli, fondatore del “Gruppo di Portici” — È tempo di un più rigoroso richiamo all’etica della responsabilità per porre un argine al degrado dell’opinione pubblica e della politica». Recuperando il monito di un illustre filologo napoletano, Ruggero Bonghi: «Chi si deve occupare di politica non ne deve campare». Ogni commento sarebbe superfluo.
Da dove si (ri)comincia, allora? Non esistono risposte illuminanti, ma una idea si fa strada: perché non ripercorrere, almeno idealmente, il Viaggio elettorale al quale Francesco De Sanctis si sobbarcò, in un freddissimo gennaio di 143 anni fa, per riconquistare la fiducia degli elettori dell’Alta Irpinia profondamente incrinata dalle malefatte della politica? Per ognuno dei paesi toccati De Sanctis si inventò un secondo nome – un nickename diremmo oggi - per cui Andretta era la cavillosa, Bisaccia la gentile, Calitri la nebbiosa, Rocchetta la poetica e così via. L’arrivo del tour, dopo sette tappe, venne fissato a Morra, il paese natale dell’illustre viaggiatore che qualche anno dopo, in suo onore, si chiamò e si chiama Morra De Sanctis. Il senatore mancava dalla sua terra da circa quaranta anni, molti dei quali vissuti a Napoli o in giro per il mondo insegnando lettere; era stato più volte ministro nei governi Cavour e Ricasoli ma, rientrando a casa, aveva colto che i rapporti tra i partiti e le popolazioni volgevano al peggio.
Affioravano i primi contrasti, il trasformismo faceva proseliti e molti notabili conservatori in Irpinia diventavano progressisti a Roma e viceversa.
Ecco, si potrebbe ripartire da qui. Cambiando itinerario: partenza ed arrivo a Napoli, sarebbe come chiamare alla mobilitazione: attenti, siamo ad un passo dal precipizio. Il «nemico» è alle porte, anzi è dentro casa e non c’è difesa perché la corruzione pubblica è una piovra implacabile. Quanta differenza con la vigilia del Viaggio elettorale. Allora i partiti erano due: il blocco conservatore e quello progressista, oggi se ne contano quindici e sono altrettanti personaggi in cerca di autore. O «cartelli» a difesa di interessi. Il puzzle, quindi, è irrisolvibile. E, come se non bastasse, la sensibilità rispetto alla questione morale è ben più debole.
Concludiamo. All’elettore di oggi quale chance rimane? La campagna elettorale non suggerisce spunti, il populismo ha oscurato ogni ideale e i partiti sono dilaniati da crisi intestine, inestirpabili. La marginalità, male antico, è sempre il problema dei problemi. Al tempo del Viaggio elettorale divenne popolare – virale si direbbe ora – una supplica: «O De Sanctis nostro beato toglici il tasso sul macinato». Oggi dovremmo chiedere ben altro e dovremmo richiamare in vita Manlio Rossi Doria che tuonò in dialetto contro gli architetti che volevano ricostruire i presepi dell’Alta Irpinia con palazzoni verticali che avrebbero distrutto l’economia montana fondata indissolubilmente sul binomio abitazione-stalla.
Ci fermiamo qui per non ripeterci, La situazione è ancora quella fotografata da un editoriale de La Gazzetta di Avellino: «Lo Stato è il grande dispensiere, il deputato è il dispensiere di seconda mano», il sociologo Marselli lamenta, a giusta ragione, che «purtroppo… non si è mai voluto prendere atto dell’incapacità dello Stato unitario di consentire anche l’unificazione della popolazione italiana superando definitivamente non solo i divari economici e strutturali ma perfino alcuni pregiudizi perduranti». Siamo all’anno zero, insomma, e, con il senno di poi, aveva ragione anche Domenico Rea: “Se dovessi ricostruire l’Irpinia la farei modernissima. I vecchi emblemi sono palle al piede”.