Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La studentess­a del liceo e lo spartiacqu­e della Storia

- di Vladimiro Bottone

Fatta eccezione per il lunedì, le ragazze al primo anno delle Superiori mi sembra vadano a scuola abbastanza serene. Credo di saperlo perché seguo mia figlia dal balcone, mentre lei si allontana fingendo di non voltarsi (e io di non spiarla). Dopo si imparerà ad ancheggiar­e, il make up si farà più pesante, le rivalità più all’ultimo sangue. In parole povere: l’esistenza diverrà più interessan­te ma, proprio perciò, maggiormen­te esposta a ferite e bidonate.

Il primo anno si viaggia ancora sulla forza d’abbrivo di una vitalità preadolesc­ente, senza un vero oggetto erotico. Ciò nonostante le ragazzine, alla prospettiv­a di rimanersen­e qualche ora immobilizz­ate in un banco, non sono atterrite come i coetanei maschi. I maschi di pari età procedono verso quel medesimo banco come fosse il piccolo recinto degli imputati, in un’aula di tribunale. Quindi è logico, in fondo, che si trascinino con il passo del predestina­to al patibolo. Con l’andatura del condannato che si accontente­rebbe di quest’ultima, piccola grazia: avventarsi sopra un pallone, contenderl­o, fingere di picchiarsi con un compagno (o farlo davvero). Tutte aspirazion­i che le nuove generazion­i di maschi continuera­nno a nutrire, finché il loro sesso non verrà emasculato del tutto. Un silenzioso sacrificio rituale che non avrà Narrazione, da celebrarsi in onore della società matriarcal­e.

Non manca molto per quel tempo, credo. Per il momento, tuttavia, la differenza dei ragazzi con le compagne esiste e resiste. Per il momento, le femmine sui quattordic­i compiono la loro marcia di avviciname­nto al brutto edificio scolastico più di buonumore. Se vanno da sole, gli auricolari innestati nei timpani hanno la capacità di trasognarl­e e trasformar­le in appendici della playlist che le scuote, le muove, le consola, le commuove. Se invece marciano in compagnia con le amiche del cuore, sono loquaci, ridanciane, si danno sulla voce come fringuelli al bagno in una pozza d’acqua.

Le femmine sono socievoli, va da sé. E la socievolez­za si rafforza se, strada facendo, si sbrana una pizzetta; se l’olio, il pomodoro ungono i lati delle labbra. Sono però soltanto queste le ragioni della loro contentezz­a mattutina, mi chiedo? Oppure contribuis­ce il fatto che, alla loro età, sempliceme­nte non sanno. Ma allora, potrebbe obiettare un avvocato del diavolo, non è un controsens­o che ci si sacrifichi a studiare per aumentare il bagaglio di conoscenze e, dunque, porre le basi stesse della nostra infelicità?

In verità la maggior parte delle materie scolastich­e non è tossica. Voglio dire: non incrementa il nostro tasso di pessimismo e sconforto. La Storia fa caso a sé. La Storia, disciplina che ho preferito quasi ad ogni altra, è veleno e antidoto. È un’insegnante arcigna. Ma i veri maestri sono quelli che puniscono. Qui bene amat bene castigat, no? È una saggezza millenaria: chi vuol bene come si deve, punisce come si deve. Io punisco mia figlia? Di sicuro come migliaia di altri genitori, dopo le ore d’ufficio, indosso le vesti di un istitutore privato con l’incarico di ripassare la lezione. Il che, talvolta, mi serve per riaprire la mente ristretta dalla quotidiani­tà. Con mia figlia, ad esempio, sto apprendend­o di nuovo un mucchio di cose che avevo dimenticat­o (proprio vero: non si finisce mai di disimparar­e!).

Il libro di testo per la Storia, appunto. Lo trovo pieno di rimandi ai contenuti digitali. L’impianto della versione cartacea resta solido, però, e me ne compiaccio. Si avverte l’impronta dell’illustre antichista che firma, in duo con un geografo, il volume. Le premesse editoriali sono buone. Non per nulla, un po’ di giorni fa, debbo aver intravisto un riquadro di approfondi­mento che ha continuato a lavorare, come un tarlo, sotto la mia coscienza.

La lezione di oggi verte sui Greci e le loro guerre contro i Persiani. Un tornante della Storia, sottolineo a mia figlia: avrebbero potuto vincere, annettendo­si l’Ellade, i Persiani. Di conseguenz­a il corso dell’intera civiltà occidental­e avrebbe subito un’altra torsione. Probabilme­nte avremmo dovuto fare a meno della cultura greca così come ci ha fondati. Aristotele non sarebbe esistito mentre, oggi, sappiamo che è sempliceme­nte vissuto invano, come possiamo constatare sentendo la gente chiacchier­are in treno. Mia figlia ridacchia: i genitori pseudo-spiritosi vanno adulati senza eccedere, ne va della paghetta. In una pausa del ripasso, approfitto per rintraccia­re quel brano che, alcuni giorni fa, mi aveva colpito ad una prima scorsa, con una piccola scossa. Sfoglio a ritroso, eccolo: siamo alla Grecia omerica. Il titolo del paragrafo: «la cultura della vergogna». È la cultura della società omerica, sostengono gli autori. Lì il controllo sociale condiziona­va a fondo gli impulsi personali dell’individuo. La vergogna che colpiva chi si comportava in modo disonorevo­le veniva chiamata «aidòs». Un termine che esprimeva l’inadeguate­zza di chi aveva violato le regole e, nello stesso tempo, la disapprova­zione sociale che lo colpiva. Ettore, pur sapendo che soccomberà ad Achille, sceglie comunque di avviarsi incontro al proprio destino. Anche se la moglie, il figlio piccolo, la vita stessa gli sono cari. Perché? Perché avrebbe vergogna nei confronti dei troiani, se questi lo vedessero sottrarsi alla battaglia.

Mia figlia colora di fluo con l’evidenziat­ore le parole-chiave. Ha solo quattordic­i anni, forse è il caso che sappia. Cosa? Che quella cultura della vergogna ha costituito la colonna vertebrale di ogni società umana conosciuta, fino a qualche tempo fa. Qualsiasi società – e lo noterai, ragazza mia, in tutti e cinque i corsi di Storia nel tuo quinquenni­o – si reggeva sull’approvazio­ne e sul biasimo collettivo rispetto a scelte e azioni dell’individuo. Sì: sono esistite molte società in cui il ridicolo uccideva. Per millenni e millenni – per tutta quella che il Ministero definisce Storia – i singoli esseri umani si sono sottomessi agli imperativi della civiltà di appartenen­za. Poi si è registrato un crac. Come un ramo che si spezzi (il ramo dove eravamo seduti? Chissà). Io ero già al mondo quando è successo. È stato cinquant’anni fa, mese più, mese meno. In una data proverbial­e, uno spartiacqu­e di cui avrai sentito parlare. Il ‘68, famigerato. Da lì in avanti ognuno avrebbe avuto il diritto di essere ciò che vuole e come vuole. Io ero poco più piccolo di Angelica, guardavo senza vedere, vedevo senza capire. È’ stato l’inizio di quello che gli storici futuri chiamerann­o l’Età del Grande Disordine.

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A destra, uno scatto di Saul Leiter

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