Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il professore e la «profezia» sulla questione nazionale
Fino alla fine Giuseppe Galasso ne aveva scritto. I suoi due ultimi articoli sul nostro giornale parlavano del Mezzogiorno e della campagna elettorale. Ancora qualche giorno, e le urne avrebbero clamorosamente confermato i due punti centrali della sua polemica meridionalista. Unificando il Mezzogiorno intorno ai Cinquestelle, in proporzioni e con una omogeneità in passato conosciuta solo dalla Dc, il voto ha dimostrato che una «questione meridionale», o, per dirla con Galasso, un problema nazionale chiamato Mezzogiorno, esiste eccome. Da tempo questa verità veniva contestata. Circolava anzi la tesi che non si potesse più parlare di una questione meridionale perché le mille e spesso contraddittorie facce del Mezzogiorno, le forme di sviluppo disomogenee raggiunti dai vari territori, la stessa varietà delle genti e delle culture che lo abitano, non possono più essere ricondotte a un unico nocciolo di problemi comuni; e che quindi era meglio che ogni territorio (ogni Regione) affrontasse per sé il rapporto con lo Stato e col governo, a trattativa privata, come facevano De Luca ed Emiliano con Renzi. Questa tesi si basava sugli effettivi cambiamenti avvenuti al Sud negli ultimi decenni e sulle differenze interne che hanno provocato. Novità che a Galasso non sfuggivano certo. Ma un tale discorso aveva il torto di fornire una copertura teorica e perfino un alibi morale alla progressiva scomparsa del Meridione dall’agenda politica nazionale.
Che esista invece un’unica questione Mezzogiorno, ancora irrisolta dallo Stato unitario, lo dimostra oggi senza ombra di dubbio quella mappa a colori dei collegi elettorali che tutti i giornali hanno pubblicato, e che mostra una enorme macchia gialla da Pescara in giù. Mentre i partiti non parlavano più dei meridionali, i meridionali sceglievano un partito (e un leader meridionale), anche indipendentemente dalla traballante credibilità delle sue promesse, per tornare ad avere voce nel dibattito nazionale. Non si può escludere che così facendo abbiano commesso un errore, ma è fuor di dubbio l’intento di dar vita a una ribellione politica nei confronti delle classi dirigenti nazionali, e ancor di più locali, come non se ne vedevano da tempo.
Questo è un punto a favore del Mezzogiorno, perché accresce la consapevolezza che ha di sé. Ma il voto ha dato ragione a Galasso anche su un secondo aspetto, meno positivo.
È noto infatti che egli avesse visto arrivare per tempo «l’ondata cosiddetta neo-borbonica», e che l’avesse contrastata con un’energia che andava oltre la giusta indignazione dello studioso per ricostruzioni storiche spesso raffazzonate e superficiali. Evidentemente vi vedeva il rischio che il diffondersi di un malinteso senso di patriottismo meridionale, accompagnato da velleità di separatismo, finisse per riattizzare in altre aree del Paese l’antica tentazione di mollare il Mezzogiorno al suo destino, e di separarlo per davvero sul piano delle politiche pubbliche.
Ne è stata una plastica testimonianza la doppia cartina pubblicata in prima pagina da un quotidiano di Milano, il Giornale, che sovrapponeva quasi alla perfezione i risultati elettorali del 2018 con i confini del Regno delle Due Sicilie nel 1816. Come a dire: dal Regno dei Borboni al Regno dei Cinquestelle. Circola infatti una tesi che attribuisce il trionfo del M5S nel Sud a una presunta innata tendenza dei meridionali all’assistenza e alla clientela. Si è aperta infatti un’aspra lotta politica non solo per il governo, ma anche per decidere dove allocare le poche risorse di bilancio disponibile. Ed
è evidente che il centrodestra a trazione leghista intende destinarle al taglio fiscale al Nord, piuttosto che alla redistribuzione della ricchezza al Sud.
Questo secondo punto, l’idea cioè che nel voto si sia manifestata una sorta di Lega Sud, è però estremamente insidiosa per il Mezzogiorno. Innanzitutto perché dopo aver provocato l’illusione di salari senza lavoro (dove si firma il modulo per il reddito di cittadinanza?) la delusione potrebbe provocare sconcerto, rabbia, nuovo distacco tra i cittadini meridionali e la democrazia. Ma anche perché la questione meridionale è tale solo se è un problema nazionale, che deve cioè essere affrontato in un contesto nazionale ed europeo. E se dalla rivoluzione delle urne dovessimo invece ricavare solo nuovo isolamento e nuove fratture dell’unità nazionale, sarebbe un guaio serio innanzitutto per il Sud .
Per evitarlo, occorrerebbe maturità politica e capacità programmatica da parte delle nuove classi dirigenti meridionali; servirebbe che le decine di deputati e senatori pentastellati, spesso degli assoluti Carneadi, che la Campania e la Puglia hanno mandato a Roma, sapessero trasformare il loro numero in proposta e azione, legislativa e di governo.
Permettetemi di dubitare che gli eletti dei Cinquestelle siano dotati di queste virtù, e di immaginare che anche Giuseppe Galasso avrebbe condiviso questo dubbio. Permettetemi di sperare che se ne forniscano presto, così che la pietra scagliata dal Sud nel voto del 4 marzo non ci ritorni in testa, come tante volte è accaduto.