Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’OMICIDIO DELLA CIVILTÀ

- di Candida Morvillo

In un Paese dove ogni tre giorni viene uccisa una donna, se può esserci qualcosa di più terribile, è una donna uccisa davanti alla scuola dove ha appena lasciato sua figlia. Ogni scuola dovrebbe essere sacra al cuore degli uomini come e più di una chiesa, perché tutto quello che siamo e diventerem­o lo impariamo negli anni passati sui banchi. Ieri mattina, a Terzigno, Immacolata Villani aveva appena accompagna­to in classe la sua bimba di nove anni quando è stata avvicinata e colpita a morte con un colpo di pistola, sparato forse proprio dal marito. Il 4 marzo, aveva denunciato lui e la suocera per botte, lesioni e per quell’ordinario campionari­o del male che riempie i registri dei carabinier­i e troppo spesso le cronache, con la conta di donne e madri che dovevano essere salvate e invece sono tornate polvere e terra, dalla quale non nasce più nulla. Questo è uno di quei casi in cui, davanti al sangue, non si può ignorare il simbolo, a maggior ragione se involontar­io, perché all’uomo che ha premuto il grilletto certo non importava di essere davanti a una scuola, dove poteva essere visto da alunni di sette o otto anni o dalla sua stessa figlia. Un uomo che uccide la madre di una bambina davanti alla scuola della bambina è un uomo che non è mai stato toccato dalle parole di Edoardo De Amicis quando scriveva «i tuoi libri sono le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera e la vittoria è la civiltà umana».

Chi non rispetta una scuola, non può rispettare una vita.

Pasquale Vitiello, dal quale Immacolata si stava separando, ha lasciato varie lettere. Due in particolar­e, una in cui minaccia di farsi giustizia da solo e una a sua figlia, da leggere quando sarà grande. Ma se davvero è lui l’assassino, non c’è nulla che possa aver scritto a sua discolpa. Non possono esserci ragioni che abbiano un senso laddove non c’è qualcuno che, da bambino, ha imparato a sognare che si può diventare migliore. Se si potesse riassumere in poche righe l’intera tetralogia dell’Amica Geniale di Elena Ferrante, si potrebbe dire che è la storia di due amiche cresciute nei vicoli di Napoli, dove quella che scrive, Lenù, sconta per tutta la vita il senso di colpa di essersi lasciata indietro la compagna di banco più brillante, quella Lila, che a differenza sua, lascia la scuola troppo presto e perciò si perde, incapace di amare gli altri e se stessa. Quando parliamo di degrado e povertà in un Paese come il nostro che dovrebbe essere civile, dovremmo sempre ricordarci che non stiamo parlando solo di fame, ma di una lotta per stare al mondo che può inaridire gli animi fino a far sentire ognuno così solo, spaventato e arrabbiato da perdere ogni umanità e ridursi a pura aggressivi­tà. L’antidoto lo si apprende da piccoli e forse mai più. Che l’amore sia dare e non possedere, che l’amore sia lasciare andare lo s’impara in classe dalle brave maestre e dai bravi maestri e, in casa, dalle madri e dai padri. In questa vicenda, se le prime ricostruzi­oni saranno confermate, colpisce il ruolo della suocera, denunciata anche lei da Immacolata e protagonis­ta a sua volta di una controquer­ela alla nuora. Ogni uomo che uccide una compagna, una moglie, una ex, ha imparato ad amare da una madre, è figlio di una donna, e a volte, di una catena nera basata sull’idea che non siamo nessuno se non possediamo qualcuno. Da oggi, fuori e dentro quella scuola elementare di Terzigno, ogni maestra e ogni mamma deve trovare le parole per raccontare l’orrore, per evitare che si ripeta, per insegnare un modo d’amore che è amare l’altro al punto da saperlo lasciare libero.

Ogni maestra e ogni mamma devono trovare le parole per raccontare l’orrore

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