Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA MIOPIA POLITICA DEL PD
Nella sua prima uscita a Napoli, Maurizio Martina fa professione di umiltà. Dal confronto nel circolo Pd di Fuorigrotta emergono tutti gli umori, le delusioni, la rabbia dei militanti. Una seduta di autocoscienza collettiva, come l’ha brillantemente definita Simona Brandolini. Che si chiude con il solito mantra. Opposizione, opposizione. È questo il lascito di Renzi, di cui Martina si fa esecutore. Dimostrando di perseverare in un errore, fondato su una involuta interpretazione del misero risultato uscito dalle urne. Per la dirigenza dem, infatti, la storica sconfitta elettorale va interpretata come chiara indicazione degli elettori a relegare il Pd ai margini della partita del governo del Paese. All’opposizione, appunto. I cittadini avrebbero perciò autorizzato i democratici a non definire alleanze, programmi, idee e prospettive per cinque anni. Immobili ad attendere l’altrui disastro, ove mai si verificasse. Tatticismo puro. Questa ambizione all’isolamento autistico dimostra, infatti, che i dem non hanno compreso il cambio di fase politica in atto. Che si spiega essenzialmente con il ritorno al sistema proporzionale. Ed è veramente assurdo che il Pd, che questo passaggio ha voluto sostenendo la peggiore legge elettorale mai concepita dal dopoguerra, non ne tragga le dovute conseguenze. Un atto di macroscopica miopia politica. Nei sistemi proporzionali, che ben dovremmo conoscere per averli frequentati per decenni, il giorno dopo le elezioni comincia il secondo tempo del match per il governo, iniziato con la campagna elettorale.
Termina la fase dell’affermazione del sé e comincia il confronto su come costruire il noi e il cosa. Alleati e programmi. E ciò è ancor più vero dopo il cambiamento epocale del 4 marzo scorso.
Invece, il Pd ragiona ancora come se si muovesse nel bipolarismo con Berlusconi, in un sistema maggioritario dove si perde o si vince. E dove, avendo perso, è automatico il passaggio all’opposizione.
È come se il partito fosse rimasto al 2007, alla vocazione maggioritaria, dove la necessità di occupare il centro politico era giustificato dal sistema elettorale e dall’unicità del competitore del campo avverso. Lo stesso Walter Veltroni, ideatore di quel modello di partito e artefice di una straordinaria campagna elettorale nel 2008, ha recentemente archiviato quella fase. Orfini e gli altri, no.
Sarebbe invece il caso di far evolvere il pensiero adeguandolo al mutato quadro di riferimento. Partendo da alcune considerazioni. Il primo luogo, l’elettorato ha dimostrato di non considerare più il Pd come l’attore principale, il punto di riferimento del sistema politico. Lo ha messo in minoranza, ma non all’opposizione di un futuribile governo di cui nemmeno avrebbe potuto immaginare la composizione.
Sarebbe ora che anche la dirigenza dem prendesse atto di essere stata degradata a coprotagonista. E a comportarsi di conseguenza, senza capricci e velleità da star. Perché in un palcoscenico dove si canta in coro si sceglie insieme lo spartito e il brano da eseguire. Perché nel proporzionale si può essere determinanti anche non disponendo della maggioranza relativa. Craxi con il 13% dei voti è stato per un decennio il riferimento della politica italiana. E lo stesso sta facendo oggi Salvini, con il 17% dei consensi. A dimostrazione che il campo è di chi lo occupa, al di là dei numeri. Allo stesso modo, non convince la strategia di rincorsa postuma ai 5 stelle sul terreno di chi si colloca più a sinistra. Anche in questo caso, l’elettorato è stato chiarissimo. Bocciando sonoramente Liberi e Uguali ha dimostrato di non riporre più alcuna fiducia nella classe politica che si è succeduta a sinistra negli ultimi venti anni. Ha preferito dirigersi su quegli sprovveduti, incolti e barbari dei cinque stelle per vedere tutelate al meglio le istanze degli ultimi, piuttosto che affidarsi nuovamente a dirigenti consunti, delegittimati dai propri fallimenti. Affannarsi, perciò, in un inseguimento a ritroso di un elettorato che non si è più in grado di rappresentare sarebbe una battaglia, dalla durata infinita, persa in partenza. E, dunque, inutile. Piuttosto, sarebbe ovvio esaltare il patrimonio di valori e di significati che esprime quel 18% che ha votato Pd. Un nucleo forte di elettori di centrosinistra che meriterebbe di vedere pienamente declinate in positivo le proprie idee, a partire dai diritti civili, espressione di un riformismo progressista che non può andar perso per cinque anni. Il mutato proscenio impone a chiunque sia in possesso di idee buone e forti di confrontarsi, di misurarsi e di allearsi sulla base di scelte e priorità condivise. Senza erigere muri e fili spinati. Anche se dall’altra parte c’è il Movimento 5 stelle. Che non va demonizzato, ma quantomeno ascoltato. Poi, la politica farà il suo corso.