Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Solfatara, il deserto dopo la strage
Il 12 settembre scorso una voragine inghiottì un’intera famiglia. Sito sotto chiave. Gli operatori turistici: un disastro
Sir William Hamilton non avrebbe resistito all’angoscia che procura oggi una visita ai Campi Flegrei e avrebbe chiesto a Pietro Fabris, il celebre vedutista che gli faceva da guida preziosa nelle sue escursioni nelle terre ardenti, di riaccompagnarlo a Napoli. La Solfatara, la sua amatissima Solfatara, non è più un vulcano in quiescenza capace di custodire i suoi misteri e di regalare ancora emozioni straordinarie a circa trecentomila turisti che la visitavano ogni anno, ma è una terra “morta”. Dimenticata. Sola. Tutto è spento e tutto tace. Cinque mesi dopo la tragedia che si concluse con la morte di una coppia di genitori e di un loro figliolo – l’altro, di 7 anni, si è miracolosamente salvato ma vaga in un universo che non gli apparterrà mai – l’unico visibile passo in avanti è la recinzione completa del muro che in qualche modo “protegge” la veduta delle fumarole dove i bambini hanno fatto cuocere milioni di uova a una temperatura di 160 gradi e i loro padri hanno “bevuto” con avidità l’elisir che avrebbe dovuto garantire una nuova vigoria sessuale.
A chiudere l’ultimo spiraglio è stato il Comune, ma il sindaco di Pozzuoli Figliolia mette le mani avanti: «Non lo avremmo fatto, ce lo ha imposto la Procura». Sarà vero? Non importa più di tanto rispetto all’immensità del disastro, ma ai turisti, intanto, è stata negata la possibilità di fotografare o di filmare l’orrida e spettacolare visione dall’alto della strada che conduce al rione Solfatara.
«E’ giusto sottolineare il ritardo di chi deve decidere — dice con pacatezza Giuseppe (Peppe) Luongo il vulcanologo che ha eletto a sua “patria” i Campi Flegrei — anche se da cittadini siamo consapevoli di risolvere prima di ogni cosa l’inchiesta sul terribile episodio del 12 settembre dello scorso anno con l’accertamento delle responsabilità. Far “rivivere” la Solfatara, però, è altrettanto doveroso, la crisi di immagine ha provocato danni enormi. Continuare a tenere sotto chiave il sito, insomma, è un rimedio forse peggiore del male. Bisogna ricominciare da capo. Subito».
Ricominciare, ma da dove? Forse dalla domanda di una turista francese che sommessamente chiede al gestore del bar di fianco al vulcano che è in assoluto il siparietto più degno di nota. «Je voudrai faire la pipì». Armando Guerriero, manco a dirlo, le indica il bagno, poi si rivolge a noi e chiede comprensione. «Che volete sapere di più, questa da cinque mesi è la nostra vita. Siamo rimasti soli, è come se ci fosse caduto addosso una montagna. E non parlo solo di me, ma del campeggio, dei ristoranti, degli alberghi, dei bed and breakfast, della salumeria, perfino della farmacia. Da duecentomila visitatori siamo passati a zero presenze». Ce l’avete con la famiglia che gestisce la Solfatara? «Per carità, loro sono distrutti come noi. Non entriamo nel merito dell’inchiesta, i giudici devono andare fino in fondo ma forse si potevano contemperare le due esigenze». La domanda, però, cade nel vuoto. Giriamo lo sguardo intorno e viene da sorridere guardando che tra le botteghe chiuse c’è anche quella di un esperto in tatuaggi che aveva aperto tende in un territorio antichissimo che, però, era frequentato soprattutto da stranieri e da giovani studenti napoletani. La turista francese, intanto, ritorna verso la sua comitiva e noi possiamo concentrarci sul dialogo dei minimi sistemi tra due abitanti del rione Solfatara che ora sentono sulla loro pelle il dramma ma che fino a quel “maledetto” 12 settembre si mostravano infastiditi del boom di presenze e del caos che ne derivava.
Il dialogo tra i due amici, bonario quindi, riguardava la recentissima polemica sui ritardi e le incompletezze del piano di evacuazione. «Genna’ già ti vedo in una tenda piantata in un paesino dell’Umbria (è la regione scelta per ospitare gli sfollati della Solfatara che appare infelice come quella di confinare i mafiosi nei comuni vesuviani, cioè tra le braccia della camorra, ndr)». La risposta è pronta e pepata: «A noi nessuno ci pensa, vuole dire che andremo a consolarci chiedendo ospitalità a chi sta peggio di noi».
Tentiamo invano di parlare con Giorgio o con Maria Angarano, due dei gestori della Sofatara, il cancello è chiuso e quando, per gentile concessione, viene aperto è solo per banali informazioni. Maria appare provata, suo fratello, per ammissione dei vicini, lo è ancora di più: provato nel fisico, ma anche nel morale. «La burocrazia è giusto che faccia il suo dovere, commenta il gestore del bar, ma non si può bloccare tutto». La pensa allo stesso modo anche il vulcanologo che ama i Campi Flegrei come e forse più di sir William Hamilton. «Lo dico con grande rispetto e sotto voce, ma a paralizzare la Solfatara è stata una catena cementata dalla paura. I giudici sono stati condizionati dalle relazioni forse eccessivamente drammatiche dei loro Ctu e perfino l’Osservatorio Vesuviano e la Protezione civile hanno avuto, crediamo, il timore di assumersi le responsabilità che sono di loro competenza».
A questo punto, però, è in gioco anche il futuro. E qui entra in ballo la variabile fissa e immancabile della rassegnazione al peggio, antico vizio napoletano. Carlo Knight, studioso del bello antico e spettatore rassegnato del brutto moderno, ce lo fa notare: «Siamo bravi solo ad accettare le cose così come vanno. In attesa di qualcosa che non si sa se come e quando arriverà». A Madonna vi accompagna, parola di cardinale.
Il «vulcano» oggi è una terra morta. Un balzo indietro di anni. Sfumate le 300 mila presenze