Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Meridione in rivolta contro le sue classi dirigenti
Il
voto del 4 marzo, al di là degli esiti squisitamente politici, ha avuto un indubbio merito: quello di far tornare prepotentemente alla ribalta un rinnovato protagonismo della società meridionale sulla scena politica nazionale, dopo che per troppi anni ne era rimasto escluso. La chiave di lettura, purtroppo ancora prevalente in larga parte dei mass media del Nord, è quella che si è trattato di un voto a favore delle politiche assistenziali, qualcuno ha addirittura rievocato gli anni della peggior Cassa del Mezzogiorno.
Non certo quella degli albori che fu, invece, per giudizio unanime, una delle più felici esperienze di post keynesianesimo pienamente riuscite. Valutazioni tanto ingenerose quanto sommarie, perché ciò che viene semplicisticamente etichettato come voto di pancia altro che non è che il coagulo finale, dopo decenni di malgoverno e di politiche clientelari, di delusione, rabbia, protesta anche veemente, contro uno stato di cose non ulteriormente tollerabile.
Le statistiche che certificano, a livello nazionale e anche internazionale, i livelli inaccettabili di povertà, di disoccupazione, di emarginazione, di precarietà meridionali, non riescono, il più delle volte, a tradursi concretamente in storie, volti, drammi della gente comune, di quanti sono costretti quotidianamente a fare i conti con una sopravvivenza sempre più ardua da accettare. Ma sbaglierebbe chi pensasse che il voto ai 5 Stelle al Sud è stato solo un consenso venuto dalle periferie, dai ghetti, da quelle aree che un tempo erano il predominio della sinistra politica e sindacale. Nel voto espresso per i grillini c’è anche un forte e convinto assenso da parte dei ceti medi riflessivi e tutto sommato benestanti, professionisti, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, che cercavano da tempo un canale non lobbistico che frantumasse la vecchia logica del voto di scambio e non volevano continuare a subire i riflessi negativi di una politica europea dell’austerità a senso unico.
Lo smantellamento dei corpi intermedi ha favorito questo fenomeno, Matteo Renzi ne aveva fatto uno dei suoi slogan preferiti, e, invece, si è rivolto proprio contro di lui e contro il partito di cui fino ai primi di marzo è stato segretario e leader indiscusso. Oggi nello stesso Pd lamentano che quel giovane leader, che aveva minacciato di usare il lanciafiamme contro le cordate di potere e i gruppi familistici del Sud, ha finito per delegare a loro il governo di intere regioni. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non è quindi, quello nel Mezzogiorno, solo un voto contro Roma, contro il governo centrale che con le sue politiche ha allargato il divario col Nord del Paese, ma anche, anzi soprattutto, un voto contro le classi dirigenti meridionali e le loro evidenti incapacità.
Aver individuato, a torto o a ragione, nei 5 Stelle la soluzione al problema, è prematuro dire se sarà stata una scelta velleitaria. Solo il tempo potrà dire come il loro programma si calerà nelle compatibilità economiche, come ne uscirà dalla prova della governabilità, come e se le promesse elettorali, che spesso sembrano irrealizzabili, potranno essere mantenute. Il tanto deprecato Reddito di Cittadinanza, il cui costo a prima vista è insopportabile per un bilancio pubblico disastrato come il nostro, può anche diventare praticabile se realizzato nell’ambito di una riforma dell’intero Stato Sociale che cancelli una serie di misure parziali e frammentate che finiscono per favorire singole categorie e non l’intera popolazione. Chi lo critica dimentica che qualcosa di simile c’è già, sotto diverse forme, in tutt’Europa.