Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«La cupa» Quanta catarsi nel rito di Borrelli

- Di Stefano de Stefano

Mimmo Borrelli intreccia da sempre santità e blasfemia, immergendo la sua scrittura epica in un rito scenico che tocca, per suscitarne catarsi, le più ancestrali turpitudin­i umane: dall’incesto all’uxoricidio, dal parricidio al figlicidio e così via. Esiti di trame stratifica­te, proprie della tragedia greca, da cui l’autore riparte per descrivere l’abiezione autodistru­ttiva del tempo presente. E allora cosa è accaduto di nuovo e magnetico da spingere il pubblico de «La cupa», al debutto al San Ferdinando, a tributare 8 minuti di applausi, cadenzati e liberatori, al nuovo vate flegreo? Certo l’intenso transfert creatosi fra personaggi e pubblico, rafforzato da una lingua densa e salmastra al di là della comprensio­ne, certo l’atmosfera della cava mefitica eppure rigenerant­e disegnata da Luigi Ferrigno, ma soprattutt­o il ricorso alla figura del padre (sul cui ruolo si interroga il testo), il Giosafatte di Borrelli, simile a un Kronos che uccide i figli, salvo lasciare a uno di essi (qui il Crescenzo di Gaetano Colella) il compito di dar vita al mondo nuovo. Quello stesso che rotola in scena come metafora della cava di tufo che tutto inghiotte, morti compresi, e poi restituisc­e, e alla cui ombra si svolgono le due parti dello spettacolo in cui si intreccian­o i destini di uomini bestiali e bestie umane. Risultato una leggenda che rapisce fondendo passato e attualità (come rifiuti tossici e mercato degli organi), bestemmie irripetibi­li e struggenti canti procession­ali, omicidi e vendette. In una catena che lega e stritola anche gli altri personaggi, restituiti credibilme­nte da Gennaro Di Colandrea, Autilia Ranieri, Marianna Fontana, Renato De Simone e Geremia Longobardo e così via.

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