Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«La cupa» Quanta catarsi nel rito di Borrelli
Mimmo Borrelli intreccia da sempre santità e blasfemia, immergendo la sua scrittura epica in un rito scenico che tocca, per suscitarne catarsi, le più ancestrali turpitudini umane: dall’incesto all’uxoricidio, dal parricidio al figlicidio e così via. Esiti di trame stratificate, proprie della tragedia greca, da cui l’autore riparte per descrivere l’abiezione autodistruttiva del tempo presente. E allora cosa è accaduto di nuovo e magnetico da spingere il pubblico de «La cupa», al debutto al San Ferdinando, a tributare 8 minuti di applausi, cadenzati e liberatori, al nuovo vate flegreo? Certo l’intenso transfert creatosi fra personaggi e pubblico, rafforzato da una lingua densa e salmastra al di là della comprensione, certo l’atmosfera della cava mefitica eppure rigenerante disegnata da Luigi Ferrigno, ma soprattutto il ricorso alla figura del padre (sul cui ruolo si interroga il testo), il Giosafatte di Borrelli, simile a un Kronos che uccide i figli, salvo lasciare a uno di essi (qui il Crescenzo di Gaetano Colella) il compito di dar vita al mondo nuovo. Quello stesso che rotola in scena come metafora della cava di tufo che tutto inghiotte, morti compresi, e poi restituisce, e alla cui ombra si svolgono le due parti dello spettacolo in cui si intrecciano i destini di uomini bestiali e bestie umane. Risultato una leggenda che rapisce fondendo passato e attualità (come rifiuti tossici e mercato degli organi), bestemmie irripetibili e struggenti canti processionali, omicidi e vendette. In una catena che lega e stritola anche gli altri personaggi, restituiti credibilmente da Gennaro Di Colandrea, Autilia Ranieri, Marianna Fontana, Renato De Simone e Geremia Longobardo e così via.