Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Cava de’ Tirreni e la categoria del «pittoresco»
Cava e il suo paesaggio negli anni del Grand Tour: un libro (edizioni Marlin) che si propone al lettore nel segno di un appassionato amore per la città metelliana. L’amore da cui l’anglista Vincenzo Pepe è stato spinto a offrirci, utilizzando fonti e documenti quasi sempre inediti, una variegatissima raccolta delle emozioni che la permanenza a Cava suscitò nei viaggiatori britannici che vi vennero tra settecento e primo novecento. L’amore da cui Tommaso Avagliano - che a Cava è nato, a Cava lavora da una vita e a Cava ha già dedicato vari bei libri – è stato indotto a renderle ancora una volta omaggio, pubblicando quest’ultimo curatissimo leggiadro volumetto. E l’amore per Cava da cui i visitatori stranieri furono rapiti tutti, tutti nessuno escluso, non appena ebbero la ventura di approdarvi, per quanto diversi fossero i loro caratteri e le loro inclinazioni.
Perché il fascino di Cava era irresistibile. E da cosa nascesse è l’autore stesso a chiarircelo già nelle prime pagine. Consisteva questo fascino nel suo essere un vero e proprio concentrato di quel «pittoresco» che, «nato come categoria estetica autonoma» a partire da metà settecento, si era poi arricchito di inediti essenziali apporti grazie alla sensibilità romantica: infatti il romanticismo avvertiva intensamente la suggestione del passato e aveva riabilitato il valore della religiosità, assolvendola dalla condanna illuministica. E questi requisiti appassionatamente reclamati dalla nuova cultura che trionfalmente si andava diffondendo in Europa - bellezza, tangibilità della storia pregressa e afflato religioso - Cava li possedeva tutti e tre in abbondanza, e a piene mani li elargiva all’ospite. Perché il suo paesaggio, già incisivamente caratterizzato dalle vallate e dai burroni, burroni che di continuo variavano il panorama, impedendo ogni monotonia, dal tortuoso fluire dei ruscelli, dallo spumeggiare delle cascate, dal verdeggiare delle campagne, dalle fioriture dei giardini e dall’ininterrotto cinguettare degli uccelli, era reso ulteriormente indimenticabile dall’insolita vicinanza tra montagne e mare. Poi, il passato: il passato che a Cava era impossibile scordare, perché ovunque esibiva la sua persistenza, attraverso i castelli diroccati, i bastioni diruti, le torri di caccia, i mulini abbandonati, i sentieri lungo i quali da secoli i devoti raggiungevano i luoghi di culto. E, appunto, l’alitare del divino. Un alitare che, quasi fisicamente percepibile nella valenza mistica dell’Avvocatella, trovava la sua apoteosi nella maestà della Badia e pareva quotidianamente confermato dalla fede convinta e ingenua della gente del luogo. Un alitare così coinvolgente che da esso, malgrado la radicata diffidenza anglosassone per il papismo, ci fu perfino, tra gli ospiti britannici, chi si lasciò indurre a convertirsi al cattolicesimo. Ma, come ho detto, Cava gli stranieri sapeva ammaliarli tutti, e l’ammaliamento subito essi lo esternavano nei propri scritti e dipinti. Perché per lo più erano scrittori e pittori (esaltati, questi ultimi, anche dalla consapevolezza di raffigurare i boschi e le forre che avevano ispirato Salvator Rosa).
Insomma il libro rappresenta un compatto e toccante riconoscimento dell’unicità di Cava. Riconoscimento a cui non possiamo non associarci, se riflettiamo a come, molto più di altre cittadine campane, essa abbia saputo difendere dall’assalto del cemento il suo centro antico che infatti ancor oggi conserva la propria dignità e identità estetica.