Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Oltre la Reggia
L’orgoglio ritrovato Questa città deve smettere di confidare nella spesa pubblica e cominciare a competere con le altre come se fosse un’azienda
Caserta vista dalla Reggia, dove lavoro ormai da due anni e mezzo, è una comunità che sembra avere perso la voglia di quel grande divertimento collettivo che è costruire la propria casa, la propria città, il gusto della sfida, il fascino del progetto, il coraggio stesso di sbagliare. Incontri le persone e non hai affatto, mai, la percezione di vivere nella provincia “maglia nera” d’Italia, anzi; e non solo e non tanto per la umanità ricca e cordiale che è la cifra di queste terre, ma per la competenza diffusa, la dignità e l’impegno dei più, l’energia di tanti. Però si è dominati dalla sensazione di un incedere lento e incerto, di un passo faticoso. Non è rassegnazione, ma lo sembra.
Dove sta il problema? Credo che non si sia ancora preso atto, per davvero, di due eventi quasi storici: il primo è la “crisi fiscale dello Stato”, che dovrebbe impedirci di continuare a sperare che un aumento della spesa pubblica possa essere il vettore propulsivo del nostro sviluppo; il secondo è la nuova dimensione della competizione internazionale, che è sempre più competizione fra sistemi urbani, città metropolitane, come insegnano le esperienze di casi di successo come Milano, Barcellona, Monaco, e di città uscite da gravi crisi di deindustrializzazione come Torino, Glasgow, Genova, Bilbao.
Ecco, io credo che Caserta debba smettere di confidare nella spesa pubblica e cominciare a credere davvero in se stessa, non sprecare più l’orgoglio per difendersi e giustificarsi e usarlo invece come energia per sfidare gli altri e se stessa; e cominciare a sentirsi come un corpo unico che compete, guadagna posizioni, gioca per vincere. Essere una città che si comporta come se fosse una sola impresa, una unica azienda. Smettere di confidare nelle virtù salvifiche della finanza straordinaria e riscoprire la potenza dell’ordinaria amministrazione se fatta con cura e gusto della perfezione.
I soldi pubblici ci sono, ma non li manderà il governo: li produrremo noi con le sfide dell’efficienza e dell’efficacia, realizzando più risultati con minori risorse, e destinando risparmi e maggiori entrate ad alimentare lo sviluppo e a generare lavoro di qualità.
È la pubblica amministrazione la nostra speranza: industria e agricoltura possono fare meglio ma il settore privato è già teso nella direzione giusta. Invece è nel settore pubblico che ci sono i margini per crescere. Ci si può chiedere: siamo una piccola città, come possiamo farcela? A ben guardare avremmo anche la taglia per competere se ragionassimo considerando Caserta come parte di un’ unica area metropolitana, quella di Napoli, che deve ricominciare a sentirsi grande, come quando Carlo si costruì a Caserta una reggia che certamente non percepiva come altrove da sé e da Napoli. Mentre Caserta deve scegliere se essere parte della “grande Napoli” o cercare di essere un polo urbano a vocazione globale, sapendo che in questa incertezza rischia di essere periferica. Ci sono troppi nodi istituzionali non risolti: i comuni sono tanti e troppo piccoli per potersi permettere tecnostrutture di alta qualità, politiche di respiro europeo e una pianificazione territoriale efficace.
In questi grandi scenari l’amministrazione pubblica dei beni culturali può regalare alla Campania un futuro d’oro, se si continuerà a credere nella riforma, nell’ autonomia, in un buon management e si combatteranno in modo aperto, sereno ma fermo, i nostalgici della stagnazione. L’esperienza della Reggia, del Mann, di Pompei e Paestum, di Capodimonte e di tutti i musei campani sulla via dell’autonomia dimostra che i beni culturali possono essere, anziché un costo ancorché nobile da sopportare, una leva di sviluppo e ricchezza civile ed economica.