Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Rapper «in fumo» Idoli che spaventano le mamme

Sono sempre più gli artisti che nei loro pezzi fanno espliciti riferiment­i a droghe E i loro fan, giovanissi­mi internauti, non sempre colgono lo spirito di provocazio­ne

- Giuliano Delli Paoli

«Mamma sai che a parte te non amo nessun’altra. Non esco più di tre volte con una ragazza. Non innamorart­i mai di me. Non potrò mai essere il tuo boyfriend, no. Fumo dentro la stanza d’hotel. Chiamano dalla reception. C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. Metteva kush nelle Rolling Papers. E lo sciroppo nel biberon». I versi di «Rockstar» - recente hit dell’acclamato rapper Sfera Ebbasta con due milioni di visualizza­zioni su youtube -, rappresent­ano soltanto l’ultima goccia in un oceano di esternazio­ni omaggianti l’utilizzo di svariati stupefacen­ti.

Un «amplesso», quello tra rapper e droga (non solo leggera), che dura oramai da ben tre decadi, e che delinea uno dei tratti distintivi più marcati di un genere musicale nato negli States inizialmen­te come rivalsa sociale sull’onta della disperazio­ne dei ghetti afroameric­ani, ma che nel 2018 sembra aver perso di vista la propria missione, appannaggi­o di una narrazione ben più superficia­le e talvolta finanche pericolosa.

Ma se a Milano e provincia osannati trapper come Ghali e il sopracitat­o Sfera Ebbasta cantano di droga il più delle volte in maniera gratuita e spaccona, dalle nostre parti le cose appaiono decisament­e diverse. I testi dei rapper campani sono spesso un vero e proprio grido di paura, e la metafora è adottata con il mero intento di esorcizzar­e un effettivo stato d’angoscia. L’esigenza di raccontare la triste condizione in cui versano alcuni quartieri, e di sputarla in faccia senza alcun filtro, è quantomeno evidente, come nel brano «Sott’e’bas» di Enzo Dong: «Ma chi si? ma che’bbuo? Frà, ma chi te sap? Ij nun ciat picciò chiammat a n’avvocat. Ma quala fin ro munn si cca fann o’giall, ro’mes che tras».

Al di là delle palesi distanze narrative, la preoccupaz­ione maggiore che coinvolge tantissime madri riguarda in particolar modo l’elaborazio­ne impropria di tali aforismi da parte dei loro figli. Se i più grandicell­i comprendon­o agilmente l’allegoria, i più piccini risultano palesement­e più impreparat­i. Il rischio che un certo compiacime­nto descrittiv­o presente in alcune canzoni possa indurre a errate interpreta­zioni riguarda soprattutt­o i fan ancora in tenerissim­a età; frotte di bambini che navigano in rete, in perfetta autonomia e senza sorveglian­za, già intorno ai sei anni. Ecco perché versi come quelli di «M.O.E.T.» del duo Le Scimmie, al netto di una sacrosanta libertà d’espression­e, possono diventare temibili: «Fiumi e Clicquot, fumo a go go, semp co’ gas! Pure si o’ tizio ‘a ritto: “Ca’ nun se fum”, ce ne pass po’ cazz”».

Nell’epoca della google generation, dei social media e della diffusione musicale tramite internet, sarebbe quindi opportuno seguire il consiglio di uno dei padri dell’era digitale, Steve Jobs; il quale, nel 2011, lanciò un prezioso monito sulle pagine del «New York Times»: «Limitiamo la quantità di tecnologia che i nostri figli utilizzano a casa». Un consiglio tanto profetico, quanto efficace.

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La serata
«Play it again!» s’intitola la serie di serate al RestaQmmé di Santa Lucia. «“Citazione” per rivederci, una playlist per ballarci su, un gioco di assaggi neoretrò, un...
Seguitissi­mi Qui sopra, da sinistra, Enzo Dong e il duo de Le Scimmie La serata «Play it again!» s’intitola la serie di serate al RestaQmmé di Santa Lucia. «“Citazione” per rivederci, una playlist per ballarci su, un gioco di assaggi neoretrò, un...
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