Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La demonizzazione dei social Ma chi ha paura dell’algoritmo?
Icosiddetti social-media, Facebook, Instagram, nati per comunicare, condividere, scambiare foto e opinioni, nostalgie e desideri, hanno rovesciato il loro paradigma da libertà in conformità. Ora ci si preoccupa di chi ruba dati personali ed emozioni per scopi commerciali e politici.
Sappiamo che siamo esposti ai modi in cui i siti web utilizzano algoritmi per personalizzare la pubblicità e raccomandare una varietà di prodotti e servizi. Siamo spaventati. Ma gli algoritmi non sono «cattivi» di per sé, sono anche utilizzati per scambiare informazioni, identificare sospetti terroristi, cercare donatori di organi per chi ne ha bisogno, facilitare l’ammissione alle scuole pubbliche, smistare gli insegnanti dove ce ne è bisogno. Gli algoritmi sono strumenti utili e relativamente amichevoli. A dare origine a problemi è l’uso che ne fanno alcune società. La moltiplicazione di tali usi - nel bene e nel male - sta diventando algocrazia: controllo della società per mezzo di algoritmi. Qualcosa del genere era stato previsto nei romanzi distopici di Orwell,
1984 (Nineteen Eighty-Four), ne Il mondo nuovo (Brave New World) di Aldous Huxley, in Noi dello scrittore russo Evgenij Ivanovi Zamjatin. Ma questi romanzi novecenteschi supponevano una società governata da dittature e totalitarismi, dove il «controllo» avveniva per la razionalizzazione del lavoro e, addirittura, per l’eugenetica e la riscrittura del vocabolario, della storia e della geografia. Ovviamente questi scrittori nulla potevano sapere di Internet, di sistemi binari, di input e output. Il «controllo» era violento, poliziesco, affidato tutt’al più a televisori interattivi. Ma la televisione è, etimologicamente, un vedere a distanza, un mezzo che anestetizza sentimenti ed emozioni e che ci rende indiffe- renti ai drammi del mondo alla maniera dello spettatore di Lucrezio che osserva da lontano la tragedia del naufragio. Viceversa la «rete» collega e connette milioni di individui in tutto il mondo in un flusso indistinto e sonnambulo come un perenne vaniloquio Joyceiano, alogico, pronto a fornire notizie di utenti che spontaneamente postano foto di casa, di famiglia, di viaggi, di animali domestici, di tifoserie calcistiche, di visioni di film, di preferenze gastronomiche e sessuali. E nessuno poteva immaginare che i social-media, sarebbero degenerati in luogo di esternazioni - violente e sgrammaticate – contro tutti e tutto.
Se si deve purtroppo con-
” Torna attuale il monito di Umberto Eco per il quale «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli»
statare che nelle nostre società l’educazione sociale, civile e scientifica non ha funzionato, neanche si può semplicisticamente affermare che un popolo ignorante urla le sue idee sbagliate. La libertà di pensiero (se così vogliamo chiamarla) non può fare a meno di una mediazione che certifichi l’attendibilità storica o la verità scientifica. Torna attuale il monito di Umberto Eco per il quale «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Furono in molti a respingere con sdegno l’analisi di Eco e molti si stupirono che proprio colui che aveva sdoganato i fumetti ed i romanzi popolari, che aveva abolito i confini tra cultura alta e bassa, ora sembrava non capire i pregi dei nuovi media. Questi critici non videro il sorgere di apposite società che, sfruttando «l’invasione degli imbecilli», creavano siti particolari per diffondere panzane (fakenews), per lucrare sui «like» e le «condivisioni» e che, nell’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, avevano scoperto un’ibridazione che trasformava il linguaggio della comunicazione in qualcosa che rimetteva in discussione lo statuto stesso del sapere e l’autorità delle competenze. E qui si
” Sono sorte apposite società che creano siti particolari per diffondere panzane (fake news) e per lucrare sui «like»
inserisce la pervasività degli algoritmi che individuano tendenze e nuovi scenari sociali, non disgiunti da cahiers de doléances, rivendicazioni di libertà, desiderio di una diversa rappresentanza politica. Inutile che la tecnologia venga messa sotto accusa, astrattamente, come strega malefica che impone modelli impossibili. Le ideologie sono diventate merce, devono farsi desiderare, entrare nei sogni che passano da Internet: potere e successo. Ovviamente nei limiti della fiction, dello show, del virtuale, che faccia dimenticare il mondo reale, quello difettoso, che conosce la sofferenza, l’arbitrio, l’ingiustizia e il dolore.