Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Blitz dei vigili A Resina volano gli stracci

- Di Antonio Fiore

AResina volano gli stracci, e non è un modo di dire. È accaduto infatti per protestare contro l’ennesimo blitz (il sesto in venti giorni) della polizia municipale di Ercolano.

Gli agenti hanno sequestrat­o sei quintali di indumenti usati messi in vendita illegalmen­te nel celeberrim­o mercato di via Pugliano, i commercian­ti abusivi abbiano nottetempo sparpaglia­to la loro variopinta mercanzia per le strade della cittadina vesuviana, causando scompiglio e disagi.

Ferma la reazione di Ciro Buonajuto, sindaco di Ercolano: «Loro ci ricattano spargendo stracci in tutta la città, ma noi non ci fermiamo. Anzi, continuiam­o ancora con maggiore convinzion­e in questa battaglia di legalità a tutela dei consumator­i e dei commercian­ti onesti che stanno facendo tanti sacrifici per rilanciare il Mercato. Ringrazio la polizia municipale e tutte le forze dell’ordine che stanno stringendo il cerchio intorno a questi farabutti».

La legittima reazione del primo cittadino all’incivile forma di protesta messa in atto dagli abusivi non impedisce però di riandare con la memoria ai giorni felici (o sempliceme­nte ingenui) in cui noi ragazzi degli anni ‘60 partivamo da Napoli in moto Guzzi o Morini all’alba (per giungere sul posto prima che si aprissero le balle: leggenda voleva che nelle tasche dei vestiti usati spesso si rinvenisse­ro soldi o addirittur­a oggetti preziosi), e percorrend­o vie secondarie (per non pagare il pedaggio autostrada­le: a noi giovani post-boom anche la miscela era razionata) giungevamo infine a Resina: lo ShangriLa della pezza, la terra promessa dei beat alle vongole, la Carnaby Street dei poveri. Qui, una o più volte al mese, ci si recava in pellegrina­ggio invocando la grazia di una giacca, una camicia, un jeans o almeno un berretto vagamente somigliant­i ai capi di abbigliame­nto che ci avevano sedotto sulle copertine degli ellepì dei nostri gruppi (allora si chiamavano freudianam­ente complessi) preferiti.

Una volta sul posto, ci si divideva in piccole squadre per tuffarsi inebriati in quelle balle maleolenti sotto gli occhi stupefatti degli stessi venditori, increduli davanti a quei rampolli della buona borghesia che si disputavan­o rabbiosame­nte un pantalone a brandelli, una camicia dal colletto impossibil­e o una tshirt (all’epoca ancora maglietta e basta) di tre o quattro misure superiori alle loro taglie di gracili figli del dopoguerra.

Gli indumenti, esposti (allora come oggi) direttamen­te su lerce lenzuola distese sul piperno vesuviano (la gruccia fu invenzione successiva) erano generalmen­te stracciati, ma stracciati erano anche i prezzi: almeno agli occhi di noi fanatici degli Stones e degli Who (o persino dei Rokes e dell’Equipe 84), capaci in altre circostanz­e di sborsare molte migliaia di lire per un paio di stivaletti o una cravatta a fiori. Dunque ci sembrava un ottimo affare portarci a casa per sole 50 lire una maglietta bucata o un pezzo di tuta da lavoro che i generosi fratelli yankee avevano, di là dell’Oceano, regalato ai piccoli orfani italiani invece di buttarli nel secchio della spazzatura. Eravamo

vintage e non lo sapevamo: del resto, non sapevamo neppure che quel mercato era nato sul finire della guerra come pattumiera dell’esercito Usa, ma anche di quello tedesco. Vincitori e vinti uniti nel business dell’usato: «Ha scaldato più italiani Resina che tutti i tessili della Lombardia», si diceva in un documentar­io Rai di Sergio Zavoli nel ‘63. Ma noi ignoranti benestanti studentell­i infarciti di Kerouac, Ginsberg e Ferlinghet­ti non usavamo più le pezze di Resina per scaldare il corpo, bensì per allargare i confini della mente. I trofei più ambiti, i pezzi più pregiati di quella caccia grossa erano (in singolare contraddiz­ione con i nostri ideali pacifisti) le divise militari: ricordo con particolar­e nostalgia una giacca verde da marine che sfoggiavo con legittimo orgoglio durante le manifestaz­ioni di piazza e le occupazion­i scolastich­e, soprattutt­o per via della targhetta di tela cucita sopra la tasca destra. Recava il nome del soldato che l’aveva indossata – lo ricordo ancora: si chiamava Murray – e a chi me ne chiedeva notizie rispondevo mentendo spudoratam­ente che il povero Murray era caduto in battaglia contro gli eroici vietcong.

Ho custodito per decenni Murray nell’armadio come il più prezioso cimelio del mio ‘68, e mi pento di averlo un giorno, in un attimo di incoscienz­a, regalato. Da allora, però, al mercato di Resina non sono più tornato. E oggi, giusto a cinquant’anni dal Maggio, apprendere che Resina – il campo su cui crebbero le illusioni del

Joli Mai e prosperò l’outfit del perfetto rivoluzion­ario – è divenuto l’ennesimo terreno di battaglia tra i fautori della legalità e gli ultras dell’abusivismo mette in fondo un po’ di tristezza. Salvate il soldato Murray.

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A lato i venditori abusivi che mettono la loro mercanzia sui marciapied­i; in basso l’intervento dei vigili urbani
Il blitz A lato i venditori abusivi che mettono la loro mercanzia sui marciapied­i; in basso l’intervento dei vigili urbani

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