Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Blitz dei vigili A Resina volano gli stracci
AResina volano gli stracci, e non è un modo di dire. È accaduto infatti per protestare contro l’ennesimo blitz (il sesto in venti giorni) della polizia municipale di Ercolano.
Gli agenti hanno sequestrato sei quintali di indumenti usati messi in vendita illegalmente nel celeberrimo mercato di via Pugliano, i commercianti abusivi abbiano nottetempo sparpagliato la loro variopinta mercanzia per le strade della cittadina vesuviana, causando scompiglio e disagi.
Ferma la reazione di Ciro Buonajuto, sindaco di Ercolano: «Loro ci ricattano spargendo stracci in tutta la città, ma noi non ci fermiamo. Anzi, continuiamo ancora con maggiore convinzione in questa battaglia di legalità a tutela dei consumatori e dei commercianti onesti che stanno facendo tanti sacrifici per rilanciare il Mercato. Ringrazio la polizia municipale e tutte le forze dell’ordine che stanno stringendo il cerchio intorno a questi farabutti».
La legittima reazione del primo cittadino all’incivile forma di protesta messa in atto dagli abusivi non impedisce però di riandare con la memoria ai giorni felici (o semplicemente ingenui) in cui noi ragazzi degli anni ‘60 partivamo da Napoli in moto Guzzi o Morini all’alba (per giungere sul posto prima che si aprissero le balle: leggenda voleva che nelle tasche dei vestiti usati spesso si rinvenissero soldi o addirittura oggetti preziosi), e percorrendo vie secondarie (per non pagare il pedaggio autostradale: a noi giovani post-boom anche la miscela era razionata) giungevamo infine a Resina: lo ShangriLa della pezza, la terra promessa dei beat alle vongole, la Carnaby Street dei poveri. Qui, una o più volte al mese, ci si recava in pellegrinaggio invocando la grazia di una giacca, una camicia, un jeans o almeno un berretto vagamente somiglianti ai capi di abbigliamento che ci avevano sedotto sulle copertine degli ellepì dei nostri gruppi (allora si chiamavano freudianamente complessi) preferiti.
Una volta sul posto, ci si divideva in piccole squadre per tuffarsi inebriati in quelle balle maleolenti sotto gli occhi stupefatti degli stessi venditori, increduli davanti a quei rampolli della buona borghesia che si disputavano rabbiosamente un pantalone a brandelli, una camicia dal colletto impossibile o una tshirt (all’epoca ancora maglietta e basta) di tre o quattro misure superiori alle loro taglie di gracili figli del dopoguerra.
Gli indumenti, esposti (allora come oggi) direttamente su lerce lenzuola distese sul piperno vesuviano (la gruccia fu invenzione successiva) erano generalmente stracciati, ma stracciati erano anche i prezzi: almeno agli occhi di noi fanatici degli Stones e degli Who (o persino dei Rokes e dell’Equipe 84), capaci in altre circostanze di sborsare molte migliaia di lire per un paio di stivaletti o una cravatta a fiori. Dunque ci sembrava un ottimo affare portarci a casa per sole 50 lire una maglietta bucata o un pezzo di tuta da lavoro che i generosi fratelli yankee avevano, di là dell’Oceano, regalato ai piccoli orfani italiani invece di buttarli nel secchio della spazzatura. Eravamo
vintage e non lo sapevamo: del resto, non sapevamo neppure che quel mercato era nato sul finire della guerra come pattumiera dell’esercito Usa, ma anche di quello tedesco. Vincitori e vinti uniti nel business dell’usato: «Ha scaldato più italiani Resina che tutti i tessili della Lombardia», si diceva in un documentario Rai di Sergio Zavoli nel ‘63. Ma noi ignoranti benestanti studentelli infarciti di Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti non usavamo più le pezze di Resina per scaldare il corpo, bensì per allargare i confini della mente. I trofei più ambiti, i pezzi più pregiati di quella caccia grossa erano (in singolare contraddizione con i nostri ideali pacifisti) le divise militari: ricordo con particolare nostalgia una giacca verde da marine che sfoggiavo con legittimo orgoglio durante le manifestazioni di piazza e le occupazioni scolastiche, soprattutto per via della targhetta di tela cucita sopra la tasca destra. Recava il nome del soldato che l’aveva indossata – lo ricordo ancora: si chiamava Murray – e a chi me ne chiedeva notizie rispondevo mentendo spudoratamente che il povero Murray era caduto in battaglia contro gli eroici vietcong.
Ho custodito per decenni Murray nell’armadio come il più prezioso cimelio del mio ‘68, e mi pento di averlo un giorno, in un attimo di incoscienza, regalato. Da allora, però, al mercato di Resina non sono più tornato. E oggi, giusto a cinquant’anni dal Maggio, apprendere che Resina – il campo su cui crebbero le illusioni del
Joli Mai e prosperò l’outfit del perfetto rivoluzionario – è divenuto l’ennesimo terreno di battaglia tra i fautori della legalità e gli ultras dell’abusivismo mette in fondo un po’ di tristezza. Salvate il soldato Murray.