Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le storie del Leonardo Bianchi La cittadella dei non folli
A 40 anni dalla legge Basaglia ciò che resta di quello che fu l’ospedale psichiatrico
NAPOLI Non è stato un luogo di morte. O almeno non è stato solo questo. L’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, che fin dal 1909 si erge a Napoli in calata Capodichino, è stato un luogo dove la morte si intrecciava con la vita trasformandosi in un magma che ricopriva oltre duecentoventimila metri quadrati – su cui sorgevano cinquantaquattro edifici, un archivio amministrativo e sanitario, una biblioteca di interesse storico e scientifico, fabbriche in cui realizzare scarpe e divise, riparare manufatti in legno o in ferro, stampare e rilegare libri e riviste – e che travolgeva tutti coloro che, loro malgrado, erano reclusi o vi lavoravano, sia sani che folli, indistintamente. Ma è stato anche il luogo dove si è consumata la storia d’Italia e in particolare del Meridione, dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento;regno di interessi economici e politici senza eguali; prigione infernale dove tutti condividevano un comune destino consumato tra camicie di forze ed elettroshock, sporcizia ed escrementi, violenza e disumanizzazione che coinvolgeva anche medici, infermieri, custodi, spesso travolti dall’impossibilità emotiva e mentale di riconoscere nel malato prima di tutto l’essere umano.
Oggi, a quarant’anni dalla legge Basaglia che il 13 maggio del 1978 sancì la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio - la legge modernizzò l’impostazione clinica dell’assistenza psichiatrica facendo comprendere che il rispetto dei diritti umani si rivelava anche un’ottima terapia - il Bianchi sconta ancora l’oblio da parte di una città che, pur ergendolo in tutta la sua concretezza dietro una cinta muraria imponente, lo ha relegato a luogo di reclusione dove confinare chiunque fosse disturbatore dell’ordine sociale, «pericoloso a sé e agli altri». Accadeva, però, che uomini e donne di ogni età venissero reclusi ingiustamente e non per scopi terapeutici, ma per interessi egoistici dei familiari o motivi politici o pregiudizi dell’epoca.
Oggi, a distanza di soli sedici anni dalla faticosa e definitiva dismissione dell’ex manicomio e la conseguente riabilitazione dei degenti affidate all’ultimo suo direttore sanitario Fausto Rossano che imcontagiosi) pegnò ogni sapere clinico in una direzione realmente trasformatrice (nel 1999 erano ancora centosettanta i pazienti da ricollocare), l’ex città dei matti è in quasi totale abbandono, fatta eccezione per la palazzina centrale che al primo piano ospita la biblioteca con i suoi diecimila titoli e l’archivio contenente oltre sessantamila cartelle (provenienti anche dal manicomio di «Madonna dell’Arco» a Sant’Anastasia e quello del San Francesco di Sales corrispondente all’attuale liceo Giambattista Vico in via Salvator Rosa), e le palazzine laterali adibite ad uffici dell’Asl Napoli 1 Centro. Il restante complesso architettonico, con i suoi numerosi edifici e giardini, è fatiscente e invaso dalla vegetazione, a testimonianza della fusione tra vita e morte che tutt’oggi regna nell’ex manicomio.
Eppure il Bianchi, che solo nel 1927 fu intitolato al noto psichiatra, nacque come «manicomio modello» a padiglioni staccati: si basava sulla rigorosa separazione tra categorie di infermi (tranquilli, agitati, semi-agitati, sudici, e sulla sistemazione simbolica per cui la distanza dall’ingresso aumentava in proporzione al carattere pericoloso delle patologie. Nel corso dei decenni l’amministrazione provinciale deliberò l’esproprio dei terreni intorno all’ospedale sia in vista di una futura espansione dell’istituto, sia per assicurare una forma di isolamento dalle strutture abitative della città.
La direzione poi di Michele Sciuti, oltre ad apportare miglioramenti alla struttura edilizia (furono tra l’altro impiantati gabinetti per le ricerche di bromatologia, chimica clinica, anatomia patologica e sierologica), viene ricordata per l’impegno di carattere terapeutico. I folli, infatti, lavoravano nella calzoleria, nella fabbrica di mattonelle, nella falegnameria, nella sartoria, nella panetteria, nella colonia agricola ed erano retribuiti sia con denaro che con tabacco. Il problema, però, fu sempre l’affollamento dei pazienti.
Oggi, invece, quei pazienti sono solo anime che vagano nei lunghi corridoi dove la muffa corre lungo le pareti e i soffitti ad arco, la biblioteca e l’archivio restano chiusi a chiave e aperti occasionalmente su richiesta, alcuni edifici sono messi in vendita, solo una frase riecheggia ancora nella sua umana disperazione: «Io non sono pazzo».