Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Così accompagnai l’ultima paziente fuori dall’ex ospedale psichiatrico»
L’INTERVISTA FEDELE MAURANO «Nel ’94 c’erano 700 ospiti. Li esaminammo tutti Per nessuno di loro era giustificato il ricovero»
NAPOLI Fedele Maurano oggi è il direttore del dipartimento Salute mentale dell’Asl Na1 centro. Nel 1994 era un giovane dirigente psichiatra che assieme ad altri sei colleghi entrò nel Leonardo Bianchi per fare chiarezza su cosa fosse avvenuto in quello che ormai poteva definirsi ex ospedale psichiatrico. La legge Basaglia era entrata in vigore il 13 maggio del 1978 ma molte strutture manicomiali perché non c’erano ancora centri adatti per accogliere i pazienti.
Perché si era atteso tutti quegli anni per mettere ordine nel Leonardo Bianchi?
«Nel 1994 ci fu un grosso scandalo. Alcune telecamere del Tg3 riuscirono a entrare nell’ospedale e filmarono una realtà choccante che indignò l’opinione pubblica. La magistratura aprì un’inchiesta e il pm Rossella Catena nominò dieci periti tra cui io. Poi anche la politica decise di intervenire e l’allora assessore alla Sanità della Regione nominò Fausto Rossano direttore del Bianchi. Lo seguii come volontario istituzionale assieme ad altri sei colleghi».
Per fare cosa? «Bisognava lavorare per dismettere l’ospedale. Quando arrivammo trovammo settecento pazienti. Bisognava ricostruire la loro storia e non solo quella psichiatrica. Quindi cominciammo ad ascoltarli tutti, mettendo a punto il loro profilo individuale, uno per uno. Oltre a garantire l’umanizzazione del manicomio dovevamo capire da dove venivano e dove potevano essere ospitati».
Tutti napoletani?
«No, anzi. La stragrande maggioranza veniva dalla provincia dove erano del tutto assenti le strutture psichiatriche».
Avete parlato con tutti? Quanti di loro erano, come si diceva all’epoca, pazzi?
«Il 56 per cento faceva parte della categoria degli anziani e dei disabili. Il 40 per cento delle rimanenti persone che rientravano nella fascia delle malattie mentali, 324 pazienti, non aveva problemi psichiatrici. Cioè 150 ricoverati erano del tutto normali. La maggior parte degli altri era affetto dalla sindrome di istituzionalizzazione. Cioè l’essere rinchiusi li aveva portati all’abbrutimento e alla depressione. Insomma per nessun utente si configuravano condizioni per essere ancora ricoverati al Bianchi».
Questo nel 1994. Poi cosa è successo?
«Abbiamo lavorato cinque anni per poter trovare un posto adatto per gli ospiti del Bianchi. La Basaglia aveva chiuso gli ospedali psichiatrici, ma non c’erano ancora strutture alternative. Così iniziammo a realizzarle. Si prendevano vecchie scuole fornite dall’amministazione comunale di Bassolino, e si rendevano adatte per gli anziani, i disabili e i pazienti psichiatrici. Si deve tener conto che molti non avevano più nessuno fuori e che tanti avevano vissuto nel Bianchi per decenni. Quello era il loro mondo e lì si sentivano in qualche modo sicuri malgrado tutto quello che avveniva tra quelle mura. Non conoscevano il mondo esterno. E anche per questo aprimmo il Bianchi alla città. Ospitavamo manifestazioni, spettacoli, concerti. Venne il maestro De Simone, I Zezi. A volte portavamo i ricoverati fuori. Una volta nel 1998 organizzammo il Carnevale in piazza del Gesù».
C’era anche chi era sempre vissuto in ospedale?
«Sì, mi colpì in particolar modo la storia di G. F. che era nato nel Bianchi. Non aveva particolari problemi e si guadagnava la vita facendo piccoli servizi, andando a comprare le sigarette, portando i caffè. Mi diceva sempre: “Dottò, vengo cu vuje solo quando cà se chiude”, e così è stato. Fu uno degli ultimi».
Ma non l’ultimo. «L’ultima paziente la accompagnai personalmente in comunità. Aveva 57 anni e 47 li aveva passati in manicomio, anche se aveva solo lievi problemi di insufficienza mentale. Era una persona dolcissima e molto legata alle suore del Bianchi. Non voleva lasciare l’ospedale. Con lei iniziò un percorso lungo e delicato. Ricordo che era originaria di Casoria e proprio lì trovammo un bel centro. La portammo una prima volta a visitarlo, poi un’altra volta a pranzo con gli altri ospiti. Un po’ alla volta si adattò. Ma accettò di lasciare il Bianchi solo quando andarono via le suore. Fu l’ultima paziente, era il 1999. Un’epoca di dolore e ingiustizie era finita».
E oggi?
«C’è ancora bisogno di tanto. Servizi territorialiaperti ventiquattro ore, programmi personalizzati di cura e assistenza. I tagli non aiutano di certo».
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C’erano disabili, anziani e anche chi era nato lì Centocinquanta ospiti erano del tutto normali