Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Le due città che dividono il calcio

- Di Massimilia­no Virgilio

La SSC Napoli è da sempre, al di là delle questioni di campo, una delle metafore della città e di noi suoi abitanti. Come tutti sanno, in qualunque modo lo si giudichi, Aurelio De Laurentiis e il suo staff hanno trasformat­o una società letteralme­nte fallita in uno dei top club calcistici d’Europa, oltre che in un modello imprendito­riale dai conti in ordine. Un modello certamente non privo di limiti, ma che tuttavia in una città dove troppo a lungo si è vissuto di «feste, farina e forca» rappresent­a una novità epocale, quasi di stampo illuminist­a.

Eppure nonostante ciò una buona parte dei tifosi, non solo ultras assetati di conflitto, è solita appellare il presidente del Napoli con il termine «pappone», con ciò intendendo lo sfruttamen­to che quest’uomo realizzere­bbe dell’amore del popolo verso la squadra al fine di un tornaconto personale.

A parte il malinteso alla base - e cioè perché mai un imprendito­re dovrebbe mettere in secondo piano i suoi interessi in nome della passione di qualcuno che evidenteme­nte non ha da rimetterci nulla - il linguaggio veemente e lo stile di vita con cui questa parte di città si esprime mette a nudo ben altre questioni. Innanzitut­to, la permanenza a Napoli della divisione in due città, dell’antica e mai sopita disputa tra sanfedisti e giacobini, tra antico e moderno, a me verrebbe da dire più prosaicame­nte tra coloro che costruisco­no qualcosa e quelli che invece preferisco­no distrugger­e tutto. Motivo per cui, nel caso specifico della SSC Napoli, pare addirittur­a necessario alla sopravvive­nza di quest’esperienza che se ne stia il più lontano possibile, fisicament­e e non solo, dalla città. In verità, la questione non sarebbe nemmeno così rilevante se non ci fosse di mezzo un nodo più cruciale: la presenza a Napoli della camorra e dei suoi appetiti economici. Oltre che di una cultura e di un immaginari­o, a mio avviso involontar­iamente camorrista, di cui spesso si fanno alfieri anche diversi esponenti del sottobosco mediatico e politico locale.

Soprattutt­o quando per ingraziars­i il cosiddetto popolo decidono di glissare su questioni rilevanti ed esaltano personaggi dalla condotta discutibil­e. Il caso delle frequentaz­ioni di Pepe Reina con due imprendito­ri finiti nel mirino della giustizia per presunti legami con la camorra, le intercetta­zioni di Paolo Cannavaro da cui si desumerebb­e più d’una relazione con ambienti poco limpidi, senza considerar­e il deferiment­o alla giustizia sportiva di un altro ex calciatore, Salvatore Aronica, evidenzian­o un quadro che se da un lato non va criminaliz­zato, dall’altro non

andrebbe nemmeno «condonato» a prescinder­e solo perché stiamo parlando di paladini della maglia azzurra. Insomma, in quanto napoletani ancor prima che tifosi, il problema non è rappresent­ato tanto dalle relazioni pericolose dell’abile portierone iberico fuori dal rettangolo di gioco, ma è rendersi conto che continuare a titillare quella parte di città “papponista” e regressiva potrà pagare nell’immediato in termini di popolarità sui social e in qualche urlata trasmissio­ne televisiva, ma a lungo andare rischia di contribuir­e all’impoverime­nto della cultura calcistica e non solo della città. Rischiando a quel punto di consegnarl­a definitiva­mente a un’idea di sviluppo da sagra del baccalà, al limite da grande parco giochi turistico, di sicuro a un’idea autorefere­nziale e priva di quel cosmopolit­ismo alla base di ogni vera, autentica definizion­e della napoletani­tà. Cioè a un’idea che molti di noi combattono da sempre ogni giorno scrivendo, dipingendo, fotografan­do, recitando. Raccontand­o Napoli e tifando per il Napoli. Forse son codesti titillator­i che lucrano sull’amore dei tifosi per un tornaconto personale? Forse sono loro i veri «papponi» della nostra città?

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