Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le due città che dividono il calcio
La SSC Napoli è da sempre, al di là delle questioni di campo, una delle metafore della città e di noi suoi abitanti. Come tutti sanno, in qualunque modo lo si giudichi, Aurelio De Laurentiis e il suo staff hanno trasformato una società letteralmente fallita in uno dei top club calcistici d’Europa, oltre che in un modello imprenditoriale dai conti in ordine. Un modello certamente non privo di limiti, ma che tuttavia in una città dove troppo a lungo si è vissuto di «feste, farina e forca» rappresenta una novità epocale, quasi di stampo illuminista.
Eppure nonostante ciò una buona parte dei tifosi, non solo ultras assetati di conflitto, è solita appellare il presidente del Napoli con il termine «pappone», con ciò intendendo lo sfruttamento che quest’uomo realizzerebbe dell’amore del popolo verso la squadra al fine di un tornaconto personale.
A parte il malinteso alla base - e cioè perché mai un imprenditore dovrebbe mettere in secondo piano i suoi interessi in nome della passione di qualcuno che evidentemente non ha da rimetterci nulla - il linguaggio veemente e lo stile di vita con cui questa parte di città si esprime mette a nudo ben altre questioni. Innanzitutto, la permanenza a Napoli della divisione in due città, dell’antica e mai sopita disputa tra sanfedisti e giacobini, tra antico e moderno, a me verrebbe da dire più prosaicamente tra coloro che costruiscono qualcosa e quelli che invece preferiscono distruggere tutto. Motivo per cui, nel caso specifico della SSC Napoli, pare addirittura necessario alla sopravvivenza di quest’esperienza che se ne stia il più lontano possibile, fisicamente e non solo, dalla città. In verità, la questione non sarebbe nemmeno così rilevante se non ci fosse di mezzo un nodo più cruciale: la presenza a Napoli della camorra e dei suoi appetiti economici. Oltre che di una cultura e di un immaginario, a mio avviso involontariamente camorrista, di cui spesso si fanno alfieri anche diversi esponenti del sottobosco mediatico e politico locale.
Soprattutto quando per ingraziarsi il cosiddetto popolo decidono di glissare su questioni rilevanti ed esaltano personaggi dalla condotta discutibile. Il caso delle frequentazioni di Pepe Reina con due imprenditori finiti nel mirino della giustizia per presunti legami con la camorra, le intercettazioni di Paolo Cannavaro da cui si desumerebbe più d’una relazione con ambienti poco limpidi, senza considerare il deferimento alla giustizia sportiva di un altro ex calciatore, Salvatore Aronica, evidenziano un quadro che se da un lato non va criminalizzato, dall’altro non
andrebbe nemmeno «condonato» a prescindere solo perché stiamo parlando di paladini della maglia azzurra. Insomma, in quanto napoletani ancor prima che tifosi, il problema non è rappresentato tanto dalle relazioni pericolose dell’abile portierone iberico fuori dal rettangolo di gioco, ma è rendersi conto che continuare a titillare quella parte di città “papponista” e regressiva potrà pagare nell’immediato in termini di popolarità sui social e in qualche urlata trasmissione televisiva, ma a lungo andare rischia di contribuire all’impoverimento della cultura calcistica e non solo della città. Rischiando a quel punto di consegnarla definitivamente a un’idea di sviluppo da sagra del baccalà, al limite da grande parco giochi turistico, di sicuro a un’idea autoreferenziale e priva di quel cosmopolitismo alla base di ogni vera, autentica definizione della napoletanità. Cioè a un’idea che molti di noi combattono da sempre ogni giorno scrivendo, dipingendo, fotografando, recitando. Raccontando Napoli e tifando per il Napoli. Forse son codesti titillatori che lucrano sull’amore dei tifosi per un tornaconto personale? Forse sono loro i veri «papponi» della nostra città?