Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La mia Napoli allo specchio
Arte Il maestro della Transavaguardia racconta la genesi del suo nuovo lavoro
Amare può fare male. E amarsi troppo può portarci in luoghi dolorosi. Una città è paragonabile a una persona? Una città che si ama troppo può farsi del male da sola? D’altra parte una città che si interroga su se stessa è saggia. Alla resa dei conti, nella nostra esperienza personale, l’amore sconfigge la saggezza, o almeno uno lo spera.
E se conoscersi portasse all’amore per se stessi? Questa sarebbe una bella speranza!
Il mio gallerista napoletano Eduardo Cicelyn propone una stagione di mostre ispirate a Napoli. Nunzio sfida i colori di Napoli, il giallo omonimo e l’oltremare, il tufo giallo, soffice e poroso e l’acqua blu, dura e riflettente come cristallo. I Chapman brothers creano un presepe probabilmente apocalittico, come apocalittica e vulcanica appare qualche volta la città.
Paladino dialoga con la tombola, il gioco così innocente e così esoterico che ambisce e descrive tutta la realtà, vissuta e sognata, attraverso l’iterazione dei suoi soli novanta numeri.
Da napoletano, Cicelyn nasconde una serietà, profonda al punto di essere cupa, dietro svariati veli di irriverenza, invettiva e polemica, utile e non. La parola sfottere richiama l’atto sessuale, una penetrazione ma anche uno sfondare una porta aperta. Sfottere è un attività fondamentale per penetrare la vanità, l’identità, la maschera dell’altro, ma poiché è chiaro che maschera e identità sono realtà fittizie, sfottere è davvero sfondare una porta aperta, smontare qualcosa che non c’è. È un gioco che rende un pò più sopportabile la vanità del tutto. In questo spirito di sfottò Cicelyn mi ha chiesto di ispirarmi per la nostra mostra alle gouaches napoletane, il genere più vieto, stagnante e corrotto della produzione pittorica napoletana. Per sfottere qualcuno è necessario cogliere un nesso di verità nella persona-bersaglio. Per Cicelyn il nesso, nel mio caso, era forse la mia anapolegetica resa alla pittura. Il mio ignorare allegramente i temi contemporanei, come se fossi immerso in un soliloquio pittorico. Un soliloquio dove le immagini più brutali e inquietanti generano colori e forme dolci e seducenti quanto quelle della tradizione vedutista.
Io credo nella sincronicità.
”
Ho selezionato le pitture più ovvie e riconoscibili dei vedutisti e le ho raddoppiate ottenendo nuove immagini speculari
Vivo con la porta di casa aperta, vivo con le finestre aperte. Ascolto e noto tutte le risonanze, le ricorrenze inesplicabili che sembrano sfuggire al trantran stritolante delle cause e degli effetti.
Così sincronicità e coincidenze entrano e nutrono la mia vita. Quando il mio gallerista Cicelyn, col suo spirito irriverente e sfottente, mi ha chiesto di riferire la nostra mostra ai vedutisti napoletani non sapeva una cosa.
Non sapeva che, dal lato di nonna paterna, Fergola, io discendo da due pittori che, padre e figlio, erano i vedutisti ufficiali della Corte del Re di Napoli, incaricati di celebrare le bellezze del golfo, le innovazioni tecniche, ponti e treni, e le parate e i ricevimenti di corte.
Mio padre era uno snob. Ogni volta che nominavo gli antenati ne allontanava il pensiero con un gesto di fastidio, preferendo dirigere la mia attenzione verso il retro di un’antico orologio di famiglia dove due stemmi sbiaditi gli apparivano la prova di una fantomatica parentela dei Clemente con i Filangieri.
Per lo snob in mio padre questi antenati pittori non erano di nessun interesse. Forse anche lui credeva nel parere di Jasper Johns che un giorno mi disse: «Un pittore è il membro meglio pagato della servitù».
È solo in occasione di questa mostra a Napoli che, superando finalmente il disfattista disinteresse di mio padre, ho ricercato, esplorato il lavoro dei miei antenati pittori. Conoscerne il lavoro mi ha dato un enorme conforto. Sapere che la pittura scorre nel mio sangue mi ha fatto sentire meno solo, meno pazzo, meno vanitoso. Dipingo perché così era scritto nel mio Dna.
Queste vedute delle bellezze del Golfo appaiono scontate fino a quando non ci ricordiamo che erano dipinte prima delle penicillina, degli antibiotici e dei vaccini. Vivere era in quel tempo ancora una scommessa o una grazia che si rinnovava ogni giorno se non ogni ora. Dipingere le bellezze del Golfo era vedere, era ricordare, e ricordare era vivere un pò più intensamente, un pò più in là, sbilanciati oltre una vita troppo breve, troppo fragile.
Ho selezionato le pitture più ovvie e riconoscibili dei miei antenati. Le ho raddoppiate, ottenendo immagini speculari. Due Vesuvi, due pini, due Riviere di Chaia.
Un giardino dei sentieri che si biforcano, l’inizio della trasformazione di Napoli in un labirinto. Il labirinto della mia vita itinerante che mi riporta in luoghi identici, vestito di nuove incarnazioni. Che mi riporta in luoghi che appaiono altri, visti attraverso i fiumi sinuosi della memoria.
Ho poi affidato questi paesaggi-labirinto a un copista indiano. Un uomo semplice e cortese che vive in un mondo ancora fertilizzato dal senso della fragilità dell’esistenza. Un mondo dove i gesti sono timidi perché si teme la conseguenza di ogni gesto. Un mondo dove si vive come si dipinge o come io dipingo, investendo ogni segno di sentimento e significato, temendo i risultati di ogni segno, accettando con pazienza l’irriducibilità dei segni, il fatto che non ci appartengono, che sfuggono, che si ricompongono con risultati assolutamente imprevedibili ed estranei alle nostre speranze e illusioni.
I paesaggi dei miei antenati, resi ambigui ed evanescenti dal timido copista indiano, dialogano con cifre, emblemi e frammenti a me cari. Per me Napoli è stata sempre questa eterogeneità. Il bello e il brutto, la severità e la sensualità, la saggezza e la follia, in un solo colpo d’occhio, in una sola coscienza che recede all’infinito. Una coscienza che invita, invita, invita, ma continua a indietreggiare inafferrabile, non si sa se beffarda o affettuosa.