Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Spagnuolo Vigorita, la poesia è donna
Passione, ironia e ancora passione, che si trasforma in vera golosità d’amore. Questa in sintesi la vis poetica di Vincenzo Spagnuolo Vigorita, professore emerito, giurista e amministrativista assai noto, che nella sua seconda (o terza, o forse quarta) vita ha deciso di presentare un secondo libro di versi (che ne comprende anche il primo) E quindi di diventare a tutti gli effetti poeta. Oggi alle 18 la presentazione all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Sono le donne l’elemento portante delle rime napoletane di Spagnuolo Vigorita, non importa che siano della famiglia o incontrate per caso, volute o capitate. L’importante è che siano (e sono state) tutte bramate, blandite, corteggiate, ghermite, immaginate, ammirate, carezzate. In una parola amate. Sono donne che appartengono prevalentemente all’ambiente in cui è vissuto il neo poeta, borghese, posillipino, ma non per questo distaccato. Un mondo che appare anzi popolare, nei sogni come nella rappresentazione della vita, che tra le righe,
anzi nei solchi, risulta più che terrena e sensuale, voluttuosa. Ma anche leggera, allegra, semplice, come scrive nella prefazione al libro Elena Bertonelli.
La struttura della scrittura di Spaguolo Vigorita è elegante, ma pratica e diretta, quasi (anzi totalmente) fisica. Come nei riferimenti a baci e bocche, «vas’» e «vocc’» impegnate in un turbinio di richiami alla vita vera, quella da vivere giorno per giorno, senza nessun risparmio, per esorcizzare ogni stress quotidiano.
In mezzo a tanta passione e tanta giocosità, ecco un maschio sempre curioso e sempre alla ricerca di emozioni, nonostante il riferimento alla famiglia, alla moglie, ai figli, resti saldo. Come un faro che permetta di guardare al presente con tenerezza, al passato senza rimpianti. E al futuro con speranza. Superando persino le ultime, malinconiche, rime: «Ma chi versa grani d’amore nella clessidra delle mie mani macchiate dagli anni?». Parole che vengono considerate una vera e propria «confessione» dal postfatore del libro Francesco Pinto. E che riportano indietro al titolo di copertina: «Rime di un tempo scaduto».