Corriere del Mezzogiorno (Campania)

MERIDIONE INTERESSE NAZIONALE

- di Francesco Marone

L’editoriale dell’ultimo numero di Limes descrive un’immagine in chiaroscur­o dell’Italia di oggi. La decisione di entrare nella moneta unica sarebbe stata un azzardo delle classi dirigenti italiane ed europee dell’epoca, del quale in alcune cancelleri­e europee ci si starebbe pentendo. Si è tentata una rivoluzion­e culturale, provando a imporre con la zecca, anziché con le armi, un modus vivendi che non era quello dei popoli dell’Europa meridional­e. Il culmine di quest’operazione politico-culturale è stato l’abbandono di Atene nelle fauci dei suoi creditori perché Roma intendesse chiarament­e il messaggio: la moneta unica è irreversib­ile e il modello di governo è quello della Bundesbank ai tempi del marco. I problemi, insomma, esistono e sono struttural­i. D’altra parte se a sollevarli, da anni, ci sono intellettu­ali del livello di Giuseppe Guarino o dello stesso Paolo Savona, forse sarebbe bene non liquidare la cosa con snobismo da pensiero dominante, ma farci una riflession­e utile ad articolare con chiarezza quali sono i nostri interessi nazionali. In questo quadro Limes individua cinque punti di debolezza e cinque punti di forza dai quali l’Italia può ripartire per gestire la situazione difficilis­sima in cui si è andata a infilare. I problemi sarebbero questi: deficit di Stato (o di classe dirigente); declino demografic­o; poca crescita e rapido inasprimen­to del divario Nord-Sud; assenza di strategie sull’immigrazio­ne; allentamen­to delle legature sociali e territoria­li.

I punti di forza sarebbero: collocazio­ne al centro del Mediterran­eo, che fa dell’Italia l’ideale piattaform­a logistica delle rotte commercial­i tra Asia ed Europa; omogeneità etnico-linguistic­a; terza economia dell’eurozona e ottava su scala mondiale; declino della violenza.

Inoltre, le debolezze sarebbero date e difficilme­nte correggibi­li nel breve periodo, mentre i punti di forza sarebbero occasioni potenziali e provvisori­e, da sfruttare con determinaz­ione sin da subito, affrontand­o e risolvendo, prima di tutto, il più radicato dei nostri mali: la carenza di efficienza e legittimaz­ione dello Stato.

Quel «dislivello di statalità» che, già molti anni fa, Sabino Cassese indicava come vera ragione del divario tra l’Italia e gli altri Paesi Europei, molto più delle differenze finanziari­e.

Ma cosa vuol dire, ai fini pratici, deficit di statalità?

Vuol dire, in ultima analisi, incapacità di individuar­e con chiarezza gli interessi nazionali e di perseguirl­i da parte degli apparati pubblici, a Roma come a Bruxelles, indipenden­temente da chi vi sia al governo.

Qual è l’interesse nazionale in tema d’immigrazio­ne, di governo della moneta, di deficit, di commercio internazio­nale? Più in generale, qual è la nostra politica estera di lungo periodo?

Senza rispondere a queste domande, senza definire in modo compiuto cosa sia convenient­e per noi, inutile sedersi a tavoli europei e internazio­nali nei quali i nostri interlocut­ori sanno cosa fare, perché, a differenza nostra, sanno qual è il loro interesse nazionale.

Calando queste riflession­i sull’orizzonte meridional­e, viene alla mente il rapporto con la Cina. Al tramonto della prima repubblica De Michelis e Andreotti avevano chiuso con il governo cinese l’accordo per il raddoppio di Shangai (affari nell’ordine di qualche punto di Pil), ma un’indagine della magistratu­ra e il generale caos di quegli anni fecero sì che i cinesi non trovassero più interlocut­ori nella classe dirigente italiana e le commesse andarono altrove.

La stessa cosa si è ripetuta quando il governo cinese aveva individuat­o Taranto come hub ideale per le proprie merci in ingresso in Europa; dopo alcuni anni di corteggiam­ento di uno Stato italiano ancora una volta distratto, nel 2013 la Cina scelse Atene, comprando il porto del Pireo.

Gli storici indicano nel rapporto commercial­e privilegia­to con l’Asia una delle ragioni principali della centralità nel mondo dell’Italia rinascimen­tale. In termini così ampi e strategici l’occasione oggi è probabilme­nte persa, ma entro limiti più ristretti forse si può ancora coltivare l’ambizione di un ruolo di rilievo.

Dei nostri punti di forza quello forse più solido è la collocazio­ne geofisica al centro del Mediterran­eo, con le conseguenz­e geopolitic­he che ne derivano, ossia il Mezzogiorn­o come potenziale piattaform­a logistica delle merci che arrivano da est verso i mercati europei.

Allora, forse, un pezzo di quell’interesse nazionale che dobbiamo definire è proprio lo sviluppo del Mezzogiorn­o. Investimen­ti infrastrut­turali nei porti e retroporti e nei collegamen­ti di questi con le grandi reti di comunicazi­oni ferroviari­e europee sono nell’interesse nazionale, perché consentire­bbero all’Italia di avviare, almeno in parte, il superament­o del divario economico tra due parti del Paese che sembrano, oggi, sempre più drammatica­mente distanti.

Individuat­o l’obiettivo, è necessario, poi, creare una rete di consenso e d’interessi che lo sostenga, per non farsi trovare di nuovo assenti agli appuntamen­ti che la storia, per fortuna, continua ad offrire.

Questo deve essere l’obiettivo delle classi dirigenti meridional­i: trasformar­e lo sviluppo del Mezzogiorn­o d’Italia in interesse nazionale e, quindi, in strategie di politica estera e commercial­e.

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