Corriere del Mezzogiorno (Campania)
MERIDIONE INTERESSE NAZIONALE
L’editoriale dell’ultimo numero di Limes descrive un’immagine in chiaroscuro dell’Italia di oggi. La decisione di entrare nella moneta unica sarebbe stata un azzardo delle classi dirigenti italiane ed europee dell’epoca, del quale in alcune cancellerie europee ci si starebbe pentendo. Si è tentata una rivoluzione culturale, provando a imporre con la zecca, anziché con le armi, un modus vivendi che non era quello dei popoli dell’Europa meridionale. Il culmine di quest’operazione politico-culturale è stato l’abbandono di Atene nelle fauci dei suoi creditori perché Roma intendesse chiaramente il messaggio: la moneta unica è irreversibile e il modello di governo è quello della Bundesbank ai tempi del marco. I problemi, insomma, esistono e sono strutturali. D’altra parte se a sollevarli, da anni, ci sono intellettuali del livello di Giuseppe Guarino o dello stesso Paolo Savona, forse sarebbe bene non liquidare la cosa con snobismo da pensiero dominante, ma farci una riflessione utile ad articolare con chiarezza quali sono i nostri interessi nazionali. In questo quadro Limes individua cinque punti di debolezza e cinque punti di forza dai quali l’Italia può ripartire per gestire la situazione difficilissima in cui si è andata a infilare. I problemi sarebbero questi: deficit di Stato (o di classe dirigente); declino demografico; poca crescita e rapido inasprimento del divario Nord-Sud; assenza di strategie sull’immigrazione; allentamento delle legature sociali e territoriali.
I punti di forza sarebbero: collocazione al centro del Mediterraneo, che fa dell’Italia l’ideale piattaforma logistica delle rotte commerciali tra Asia ed Europa; omogeneità etnico-linguistica; terza economia dell’eurozona e ottava su scala mondiale; declino della violenza.
Inoltre, le debolezze sarebbero date e difficilmente correggibili nel breve periodo, mentre i punti di forza sarebbero occasioni potenziali e provvisorie, da sfruttare con determinazione sin da subito, affrontando e risolvendo, prima di tutto, il più radicato dei nostri mali: la carenza di efficienza e legittimazione dello Stato.
Quel «dislivello di statalità» che, già molti anni fa, Sabino Cassese indicava come vera ragione del divario tra l’Italia e gli altri Paesi Europei, molto più delle differenze finanziarie.
Ma cosa vuol dire, ai fini pratici, deficit di statalità?
Vuol dire, in ultima analisi, incapacità di individuare con chiarezza gli interessi nazionali e di perseguirli da parte degli apparati pubblici, a Roma come a Bruxelles, indipendentemente da chi vi sia al governo.
Qual è l’interesse nazionale in tema d’immigrazione, di governo della moneta, di deficit, di commercio internazionale? Più in generale, qual è la nostra politica estera di lungo periodo?
Senza rispondere a queste domande, senza definire in modo compiuto cosa sia conveniente per noi, inutile sedersi a tavoli europei e internazionali nei quali i nostri interlocutori sanno cosa fare, perché, a differenza nostra, sanno qual è il loro interesse nazionale.
Calando queste riflessioni sull’orizzonte meridionale, viene alla mente il rapporto con la Cina. Al tramonto della prima repubblica De Michelis e Andreotti avevano chiuso con il governo cinese l’accordo per il raddoppio di Shangai (affari nell’ordine di qualche punto di Pil), ma un’indagine della magistratura e il generale caos di quegli anni fecero sì che i cinesi non trovassero più interlocutori nella classe dirigente italiana e le commesse andarono altrove.
La stessa cosa si è ripetuta quando il governo cinese aveva individuato Taranto come hub ideale per le proprie merci in ingresso in Europa; dopo alcuni anni di corteggiamento di uno Stato italiano ancora una volta distratto, nel 2013 la Cina scelse Atene, comprando il porto del Pireo.
Gli storici indicano nel rapporto commerciale privilegiato con l’Asia una delle ragioni principali della centralità nel mondo dell’Italia rinascimentale. In termini così ampi e strategici l’occasione oggi è probabilmente persa, ma entro limiti più ristretti forse si può ancora coltivare l’ambizione di un ruolo di rilievo.
Dei nostri punti di forza quello forse più solido è la collocazione geofisica al centro del Mediterraneo, con le conseguenze geopolitiche che ne derivano, ossia il Mezzogiorno come potenziale piattaforma logistica delle merci che arrivano da est verso i mercati europei.
Allora, forse, un pezzo di quell’interesse nazionale che dobbiamo definire è proprio lo sviluppo del Mezzogiorno. Investimenti infrastrutturali nei porti e retroporti e nei collegamenti di questi con le grandi reti di comunicazioni ferroviarie europee sono nell’interesse nazionale, perché consentirebbero all’Italia di avviare, almeno in parte, il superamento del divario economico tra due parti del Paese che sembrano, oggi, sempre più drammaticamente distanti.
Individuato l’obiettivo, è necessario, poi, creare una rete di consenso e d’interessi che lo sostenga, per non farsi trovare di nuovo assenti agli appuntamenti che la storia, per fortuna, continua ad offrire.
Questo deve essere l’obiettivo delle classi dirigenti meridionali: trasformare lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia in interesse nazionale e, quindi, in strategie di politica estera e commerciale.