Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Michele Bonuomo: «Terrae Motus torni subito negli appartamenti reali»
Il direttore di «Arte» curò le edizioni a Villa Campolieto e Parigi
Michele Bonuomo
NAPOLI c’era. C’era quando, con la terra ancora calda, nacque il progetto Terrae Motus; c’era nel gennaio del 1981 nella factory di Andy Warhol a New York, quando appena un mese dopo il sisma, Lucio Amelio andò lì a proporre la sua idea: rispondere con la vitalità dell’arte alla catastrofe mortifera; c’era quando gli artisti vennero uno ad uno a Napoli a realizzare le opere; c’era a raccogliere l’amarezza del gallerista illuminato che, dopo aver anche comprato un palazzo per la collezione, ferito dall’indifferenza di Napoli, decise di lasciarla alla Reggia di Caserta; c’era perché ha curato gli allestimenti di una prima tranche a Villa Campolieto con Diego Cortez (1984 e ne firmava il catalogo), al Gran Palais di Parigi nel 1987; infine c’era all’inaugurazione negli appartamenti vanvitelliani. E ha visto anche la sistemazione negli ex locali dell’Aeronautica. Che al giornalista napoletano, direttore del mensile «Arte» (Cairo), curatore e collezionista, parve subito eufemisticamente inadeguata.
«Diciamo la verità: è una sistemazione da baraccati, da centro di prima accoglienza».
E l’ultima «scossa» è stato il furto all’opera di Boltanski.
«Sì, ho seguito con attenzione anche il dibattito sul Corriere del Mezzogiorno e approfitto subito per dissentire da quello che ha scritto ieri Eduardo Cicelyn. Per lui non si tratterebbe di una collezione così importante. E no: è invece importantissima perché a differenza delle altre, nasce da un progetto unitario, un’idea alla quale aderirono gli artisti più interessanti del tempo. E l’idea era: dare con l’arte una risposta di energia positiva all’energia negativa del terremoto. Nessuno scultore inviò l’opera per charity, il fine non era assistenziale. L’unicità di Terrae Motus era nel progetto. Non solo. Beuys, Haring, Kiefer, Warhol e altri realizzarono a Napoli opere che quasi per tutti aprirono un nuova fase nella loro ricerca personale. Oltre al valore culturale, rilevantissimo è quello finanziario: se potessero essere messi sul mercato, ogni pezzo varrebbe tra i 20 e 30 milioni di euro».
E invece la cronaca conferma che sono esposte al saccheggio. Qual è la cosa più immediata da fare?
«Rispettare alla lettera il lascito di Lucio: riportare la collezione negli appartamenti reali, pena la decadenza della donazione. La famiglia Amelio ha il diritto di tornarne in possesso. Ci sono precedenti importanti a Milano. Gli Scheiwiller donarono la collezione di Adolfo Wildt a un ente pubblico a patto che fosse sistemata in una sede di rilievo storico. Dopo dieci anni, invece, era ancora nei magazzini. Loro ne reclamarono la proprietà. Si fece avanti Ca’ Pesaro di Venezia e le opere andarono lì».
Le responsabilità dell’attuale direttore Felicori?
«Ma questa è una storia troppo importante, se ne deve occupare il ministro, altrimenti si paventano le solite soluzioni temporanee che al Sud sono definitive, anzi eterne. Terre Motus non va tenuta lì come un cadeau a modernizzare la Reggia sennò l’effetto è quella di una vecchia signora che si mette la minigonna per sembrare “figa”: ci vuole un progetto che rispetti l’enorme peso che ha avuto e ha anche come vicenda socio-culturale. Un direttore, si sa, può dirigere l’orchestra, ma la musica la devono scrivere i musicisti». Che sono?
«Per Terrae Motus nacque una Fondazione che aveva un comitato scientifico molto prestigioso. Quando fu creata venne a Napoli anche Carlo Giulio Argan. Lucio era presidente, io direttore, c’era Giuseppe Galasso che diede il nome alla collezione, Cesare De Seta, Francesco Durante, Franco Angrisani, Achille Bonito Oliva e altri. Come vede, ad eccezione di pochi, siamo tutti vivi, eppure nessuno ci ha mai consultato».
Fanta-scenario: se Terrae Motus tornasse alla famiglia Amelio, dove sarebbe meglio collocarla?
«A Napoli è cambiato il panorama organizzativo. Oggi ci sono il Madre e la Fondazione di Peppe Morra: si potrebbe pensare a un comitato — con al centro Anna Amelio — che si facesse carico di risolvere il problema».
Cicelyn ha torto quando dice che non è una collezione importante
Ha un grande valore culturale ed economico È unica perché ha un’idea centrale