Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Comprare oro, ovvero comprare le vite degli altri
Certo, sì: la mente è ingovernabile, la nostra memoria selettiva opera in base a criteri misteriosi e ad associazioni d’idee, si direbbe, alquanto arbitrarie. Per esempio non sembrerebbe intercorrere alcun nesso fra i compro-oro, diffusisi come funghi da un decennio, e i miei diciassette anni. Oppure no? Oppure tutto si tesse sul filo dell’analogia, per comporre il racconto che facciamo di noi stessi e del mondo, all’occorrenza...
Di sicuro, all’epoca, Facebook o Twitter erano impensabili. Parlo di parecchi anni fa, quando ero solo un ragazzo introverso, padre dell’uomo pieno di rimpianti che sarei poi diventato. Niente social media, dunque. Al tempo dovevamo farci bastare la superficie piastrellata dei cessi. I gabinetti del liceo erano istoriati da scritte e disegni osceni. Inalare il tanfo di creolina e piscio che saturava quei cubicoli dava alla testa, come un solvente o una colla. Forse anche perciò consegnavamo alle turche la nostra verità – quel pozzo nero indecente e, dunque, indicibile - messa al bando dal consorzio degli adulti. Dai professori, in primis. Poi dai giornalisti benpensanti che, invece di pensare, predicavano. Poi ancora dai politici che, poco potendo decidere, pontificavano. Insomma: da tutti coloro che governavano e tenevano saldamente in pugno il discorso pubblico. Con il pennarello o il temperino, le armi tipiche del discorso clandestino, davamo sfogo al testosterone, l’ormone che presiede all’aggressività: quindi al sesso e all’odio. Anche l’odio, certo: le invettive, gli «a morte», gli insulti sanguinosi si sprecavano. Era tutto un eloquio sconcio e iroso, subacqueo rispetto a quello edificante e perbene così come lo sono gli abitatori marini rispetto al pelo dell’acqua (quella pellicola luccicante che tanto ci piace fotografare e che nasconde, sotto di sé, il popolo degli abissi con le sue lotte e i mortali colpi di coda). E i compro-oro? Che cosa hanno da spartire con questo sproloquio? Si direbbe nulla, almeno in superficie. Io m’imbatto in quella tipologia di negozi durante la pausa per il pranzo, tutti i giorni. Quando cammino svagatamente, qualche minuto, soprattutto per mettere in moto la digestione e immergermi, a corpo morto, nei miei pensieri. Eppure quelle insegne, quelle vetrine disadorne con niente in mostra mi accompagnano, senza che io me ne accorga. Io transito nel campo visivo dei loro sistemi di videosorveglianza per qualche frame: un fantasma che non si accorge di loro; che spesso non si accorge di nulla, riducendo gli altri a simulacro.
Finché, giorni fa, mi ha centrato un ricordo come fosse un laser o un cecchino. Le tigri dell’ira: da un verso di William Blake, un poeta inglese dell’Ottocento che avevo letto, per mio conto, al liceo. Allora facevo indigestione di tutto, assimilando qualcosa e capendo, disordinatamente, qualcos’altro. Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’intelligenza... Ero talmente conquistato da quel concetto che lo incisi, con un coltellino, dietro la porta di un bagno. Un lavoro di giorni e giorni, a piccole e lente riprese. Le lettere scanalate con la punta, quindi inchiostrate con una biro bleu. Ne fui fiero come un galeotto con il suo modellino di nave imbottigliata.
Molti anni dopo presi a notare, per le vie di Torino e di Napoli, una lenta, metodica sostituzione. Era intorno al 2010 o al 2011. I compro-oro cominciavano ad esautorare le mercerie, prendevano il posto delle librerie in rovina o dei negozietti di prossimità invecchiati, e poi morti, coi loro proprietari. Uno di quei fenomeni graduali che ti si rivelano di colpo, in un colpo solo. I compro-oro: un’attività che mai avevo avuto modo di vedere lungo tutta la mia esistenza. I compro-oro e le loro vetrine disadorne come le botteghe in tempo di guerra (cosa avevano, del resto, da mettere in mostra? Smerciavano banconote, dunque...). Chi si era dato a frequentarli? Gli stessi che allora come ora stazionavano nelle tabaccherie, dove impazzano le lotterie istantanee. Il popolo degli abissi. Erano i bastonati dalla crisi, coloro che avevano dovuto chiudere bottega e dichiarare fallimento nel giro di due, tre esercizi. Le licenziate in tronco, gli sdentati senza più un’occupazione. I finiti sul lastrico reinventatisi friggitori di patatine o donne delle pulizie. Erano gli stuoli di divorziati che dovevano accodarsi alle mense caritatevoli; delle madri ritrovatesi sole. Erano le trentenni e i trentenni che sarebbero diventati quarantenni sbarcando il lunario da un lavoretto all’altro, magari fra le scaffalature dei grandi store: empori dove la clientela occidentale impoverita comparava, al risparmio, manufatti prodotti da orientali non molto più poveri di loro. Erano gli affogati e le annegate nei debiti, gli strozzati dall’usura, i tra- volti e inghiottiti dalla crisi più devastante dopo l’avvento della Repubblica. Alcuni si erano inabissati nella disperazione come quando cadi nel sonno, senza sentirlo venire. Altri avevano visto approssimarsi la propria rovina ad occhi aperti, vitrei e aperti, appannati e aperti.
Tutti gli invisibili di questa armata avevano prima o poi fatto tappa nei compro-oro. Quegli esercizi pubblici con i cristalli antiproiettile a blindare il bancone, l’impiegata, i bilancini. Compro oro, compro le vite. Perché l’oro, a parte le riserve tesaurizzate dagli Stati, scandisce le biografie degli individui. Solennizza nascite, fidanzamenti, matrimoni. I gioielli, non per nulla, sono anche detti gioie. L’oro è quanto la generazione delle figlie ereditò dalle madri. Chi si priva dell’oro si priva di affetti e memoria, si disfa dell’autobiografia. E tutto si svolgeva in silenzio ed alla spicciolata, furtivamente. Tutto nell’ambito della normale quotidianità: senza strepiti, senza invettive né maledizioni. Le nazioni con pochi giovani si trascinano come i vecchi: ad occhi e orecchie bassi. Confidando nei piccoli ricavi degli ori svenduti, nel momentaneo sollievo della lotteria istantanea (eccole le tappe: il compro-oro, la tabaccheria…). Poi, un giorno, le pareti dei bagni virtuali - Facebook, Twitter – presero ad infittirsi di invettive, furore, «a morte», maledizioni. Cosa stava succedendo? Ricordo lo sguardo smarrito di una supplente, al liceo, quando menzionai Blake in un compito: Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’intelligenza. Era una candida professoressa democratica dal bel faccino; mi sembrò presa alla sprovvista da questo apparente paradosso. Eppure non ci sarebbe voluto molto, anche allora, per capire.