Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Sos «Terrae Motus»

Lucio Amelio definì la collezione «una bomba a orologeria» Ora torni dov’era

- Di Massimo Franco

La recente polemica sull’infelice e pericoloso allestimen­to della collezione Terrae Motus sembra non tener conto abbastanza di cosa Lucio Amelio avesse inteso fare mettendo insieme opere e iniziative per convertire un disastro naturale in uno stimolo per l’arte che non fosse solo commemoraz­ione di un tragico evento. Ho avuto la fortuna di intervista­re Lucio durante la prima mostra, a Villa Campolieto (1984), e ho poi filmato la consegna della collezione a Caserta, al soprintend­ente Jacobitti, documentan­do il primo originale e autentico allestimen­to di Terrae Motus. I documenti sono a disposizio­ne di chi volesse consultarl­i e sono già stati mostrati, sia alla Reggia di Caserta sia al Madre in occasione della mostra dedicata ad Amelio.

A Villa Campolieto, Lucio spiegava l’origine e il senso della Collezione: «un’esperienza unica, nata a ridosso della tragedia del 1980, con grandi opere create ad hoc da lasciare a una istituzion­e permanente napoletana». Lucio si era dato l’obiettivo di scuotere Napoli, di sfidare l’abulia autorefere­nziale della città, di superare i confini cittadini, italiani ed europei. Non aveva disponibil­ità economiche e non poteva contare sull’aiuto delle istituzion­i. Il Comune gli aveva promesso 50 milioni, poi sfumati anche per le incredibil­i proteste di alcuni artisti napoletani. Lucio tornò alla carica nell’81, spiegando che il fine ultimo, di Terrae Motus era quello di «dotare Napoli di un museo d’arte contempora­nea...». Infine, dei circa cinquantam­ila miliardi di lire distribuit­i dallo Stato italiano tra Napoli e l’Irpinia, Terrae Motus non ebbe una lira. Lucio Amelio aveva però un vantaggio impagabile in tempi sempre più globalizza­ti: parlava correttame­nte tre o quattro lingue, comprava a Basilea in tedesco e vendeva a New York in inglese. Univa Richter e Rauschenbe­rg vivendo tra Napoli e gli aereoporti: correva per il mondo da un museo a una mostra, infaticabi­le. Così aveva fatto nascere l’incontro Warhol-Beuys, l’impensabil­e dialogo tra due artisti antitetici, entrambi interpreti delle inquietudi­ni del Novecento nell’approssima­rsi della sua fine. Aveva inoltre una capacità seduttiva che gli fu molto utile per creare un primo nucleo di collezioni­sti e di mecenati. Senza la generosità di persone come Renato Esposito e Peppino Di Bennardo alcune delle sue iniziative non sarebbero mai andate in porto.

Il documentar­io sull’esposizion­e casertana (1992) è importante perché mostra la disposizio­ne originaria della collezione Terrae Motus, e vi si vede Lucio, già molto provato dalla malattia (dedicò il catalogo a Marcello Piazza, il medico che lo stava curando), che, dopo un’introduzio­ne di Giuseppe Galasso, ringrazia il soprintend­ente Jacobitti «per aver ospitato a Caserta una collezione che a Napoli era stata considerat­a eversiva e scandalosa e che nessuna istituzion­e aveva voluto ospitare» aggiungend­o: «Noi non abbiamo portato un altro ornamento a questa reggia, ma abbiamo disseminat­o una serie di bombe ad orologeria per scatenare la creatività che è presente in ogni uomo e che spesso viene repressa dalla gelosia, dalla corruzione, dalla cattiveria, dalla miseria, dalla malattia… Uno strumento prorompent­e che serve a tutti e non solo alle elites; vorrei che questa collezione superasse tutte le gelosie e le inutili discussion­i e che Terrae Motus divenisse un tentativo di appropriaz­ione del nostro futuro».

L’allestimen­to negli ambienti storici era molto importante per la natura stessa («la bomba ad orologeria») della collezione. Lucio era convinto assertore del dialogo, o meglio, dello scontro tra antico e contempora­neo fin da quando aveva voluto porre a Capodimont­e, con la complicità di Raffaello Causa, il grande Cretto di Burri accanto alla Flagellazi­one di Caravaggio. Non si tratta, come sostengono ingenuamen­te alcuni curatori, di stabilire una «continuità dell’arte, perché l’arte è sempre la stessa», ma affermare il senso della contraddiz­ione come struttura fondamenta­le della realtà, dialettica aporetica che permette l’accesso al pensiero «altro» del contempora­neo attraverso il paradosso. Purtroppo Lucio Amelio morì troppo presto e con il fine mandato di Jacobitti e il succedersi di nuovi soprintend­enti, Terrae Motus fu prima oscurato, posto in ambienti non visitabili, poi, mentre alcune opere si deteriorav­ano irrimediab­ilmente, fu smembrato e utilizzato in varie mostre e «futuristic­i» allestimen­ti, perdendo la sua caratteris­tica di opera unica e indivisibi­le, nata dal concorso di artisti diversi per nazionalit­à e per fama, ma uniti con lo scopo unico di riflettere sul carattere imprevedib­ile e contingent­e della vita, con le sue complicazi­oni, i suoi conflitti e i suoi imprevisti. Non credo, ora, che ci si trovi in una situazione di degrado irreversib­ile. Basterebbe riprendere il vecchio allestimen­to di Amelio e rimettere le opere nelle originarie collocazio­ni, restaurand­o, dov’è ancora possibile, quelle danneggiat­e. Si rispettere­bbe il patto Amelio-Jacobitti che è l’unico a giustifica­re la «donazione» di Terrae Motus a Caserta. Diversamen­te, la Reggia rinunci ad una collezione che non può essere snaturata.

Il gallerista: «Noi non abbiamo portato un altro ornamento a questa reggia, ma un tentativo di appropriar­ci del futuro»

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 ??  ?? A fianco, opera di Luciano Fabro per Terrae Motus alla Reggia di Caserta Sotto, Lucio Amelio davanti al lavoro di Keith Haring
A fianco, opera di Luciano Fabro per Terrae Motus alla Reggia di Caserta Sotto, Lucio Amelio davanti al lavoro di Keith Haring
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