Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Pullecenella, l’Aventino chiamato Vomero
Una lettura del racconto in dialetto di Manlio Santanelli, pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno»
Lo scartiello de Pullecenella, il racconto di Manlio Santanelli pubblicato ieri dal nostro giornale, è un apologo che affonda le proprie ragioni decisive in un’allegoria tanto lieve quanto affilata. E non mi pare dubbio che il suo significato venga trasmesso, più che dal testo in sé, dal momento in cui è stato scritto.
Lo scartiello de Pullecenella, il racconto di Manlio Santanelli pubblicato ieri dal nostro giornale, è chiaramente un apologo che affonda le proprie ragioni decisive in un’allegoria tanto lieve quanto affilata. E non mi pare dubbio che il suo significato centrale venga trasmesso, più che dal testo in sé, dal momento in cui il racconto medesimo è stato scritto e Santanelli me l’ha mandato, con la comunicazione «fanne pure quello che credi».
Erano i tempi delle «maschere», ed anche Santanelli ne ha indossato qualcuna. Solo che, mentre le altre sono maschere che servono a nascondere (un teatrante di grande valore e di lungo corso, Nello Mascia, ha parlato in proposito di «annuale pagliacciata autoreferenziale»), quelle indossate da Santanelli servono a rivelare. In breve, Santanelli è ricorso — magari senza proporselo, e tuttavia con efficacia non minore — alla straordinaria tecnica dell’emballage portata all’acme da Kantor: il celare allo scopo di esaltare.
La prima di queste maschere senza virgolette è la lingua adottata: un napoletano nobile, di stampo seicentesco, ch’è l’opposto esatto del napoletano volgare e insignificante che si parla oggi. E dunque, Santanelli ha messo in campo una strenua, e persino feroce, sottolineatura per contrasto che, trasformando la forma in metafora, esprime senza parere un drastico giudizio — nello stesso tempo morale, civile e culturale — sullo scarto riscontrabile fra la Napoli «ricca» del passato e la Napoli «povera» del presente.
Non a caso, Santanelli tira in ballo un Pulcinella bifronte: nel senso che si radica perfettamente nella tradizione genuina che l’ha generato e, di pari passo, se ne discosta in maniera brutalmente traumatica.
Pulcinella, tecnicamente parlando, è una «mascheraanima di morto». Indossa un camiciotto bianco, ossia del colore che nelle culture popolari antiche è appunto quello della morte, e si muove come un gallinaceo, perché la gallina, nell’immaginario ancestrale della civiltà contadina, è uno dei simboli dell’oltretomba. Ma il Pulcinella di Santanelli stabilisce con l’aldilà, nella fattispecie con San Gennaro, un rapporto che tira giù l’immaginario di cui sopra al livello di una minima e banalissima esidecapitata genza di carattere individuale e privato, distorcendone l’afflato oltremondano ed escatologico in una dimensione tutta umana e fisica.
Il Pulcinella di Santanelli vuole liberarsi della gobba. E lo «gliuommero» di pensieri tormentosi che al riguardo lo agitano gli fa prendere, alla fine, la decisione seguente: «Mò me vaco a addenucchiare annanze a San Gennaro e le cerco la grazia de m’allisciare ‘sto spunzone co’ na passata e limma e raspa de la santa mana soia».
Invano San Gennaro lo avverte: «Abbada, Pullecene’, ca sto miracolo ca po’ ghi’ bbuono pe’ tte s’arrevota a rammaggio pe’ lo prossimo!». Pulcinella risponde: «È prossimo, dunquor nun è ancora arrivato, dunquor nun lu canosco, dunquor che me ne fotte de ‘stu prossimo ca manco canosco?». E il risultato è che, «scommogliato lo copierchio de chillo scartiello», ne escono centinaia di migliaia di zoccole che invadono tutta la città. Sono la metafora trasparentissima delle escrescenze artificiali indotte sulla carne di una tradizione illustre, sì, ma troppo spesso malintesa e piegata a visioni di comodo e interessi di parte.
Ancora non a caso, del resto, l’incontro fra San Gennaro e Pulcinella comincia con questo dialogo: San Gennaro: «E tu chi si’?» - Pulcinella: «Pullecenella» - San Gennaro: «Cetrulo?» - Pulcinella: «Pecché, ce stanno ati Pullecenielle?» - San Gennaro: «Eh!...» - Pulcinella: «E quante ne so’?» - San Gennaro: «Facimmo cchiù ampresso a cuntà ‘mmiez’a nuje quante nun so’ Pullecenielle».
Già, c’è in giro un esercito infinito di anime belle che «fanno» Pulcinella ma non lo sono. Un certo numero di esse, in veste di autori, registi e attori, ha indossato nei giorni scorsi le «maschere» fra virgolette succitate, abbandonandosi a dichiarazioni nella migliore delle ipotesi definibili, per usare un eufemismo, come diplomatiche. E a questo punto è del tutto superfluo chiedersi chi siano «’e ggatte napulitane» di Santanelli. Fanno, onestamente, la mossa di fermare le zoccole uscite dalla gobba di Pulcinella, ma, di fronte all’assalto delle setole di porco affilate che quelle tengono sulla punta del muso, prudentemente scelgono di ritirarsi sull’Aventino chiamato Vomero.
Voi che dite, «’e ggatte napulitane» di Santanelli sono i tanti intellettuali che si ritirano nelle loro torri, per la verità assai poco eburnee, a difesa non tanto dei propri privilegi di casta, ormai esangui, quanto delle misere prebende elargite loro da un non meno misero potere politico? Nei confronti di quelle «gatte», comunque, Santanelli sciorina un sarcasmo velenoso da antologia. Precisa che, sull’Aventino chiamato Vomero, esse trovano rifugio «’mmiezo a li vruoccole». E noi sappiamo il significato che nella napolitana parlata ha l’espressione «pede ‘e vruoccolo».
Il rifugio, mi par che intenda Santanelli, è assolutamente consono alla statura politica (nel senso alto del termine) che distingue i rifugiati. E il discorso non poteva avere conclusione più rigorosa e persuasiva della sentenza pronunciata da San Gennaro. Pulcinella, di fronte a una zoccola che era saltata in una culla pronta a mangiarsi la creatura che vi giaceva (sì, è la metafora dell’innocenza ideale minacciata dalle predette manovre personali interessate), gli aveva espresso il proprio pentimento. E il Patrono, dopo aver ricacciato tutte le zoccole dentro la gobba del Cetrulo e averla ricucita, afferra «pe’ lo pietto lo cercatore de la grazia» e dice: «Si volimmo ‘o bbene ‘e ‘sta città, Pullecenella ‘o scartiello adda purtà».
In altri termini, quello che di brutto la storia ha appioppato a Napoli dobbiamo razionalizzarlo, non nasconderlo, come la proverbiale polvere, sotto il tappeto delle false mitologie. È il solo modo per superarlo, altro che il sogno fuorviante d’interventi più o meno miracolistici dall’alto. In fondo, ce lo sottolineò anche quel signore, pure lui nascosto per scelta ribelle dietro la maschera senza virgolette di una lingua «altra», che si chiamava Raffaele Viviani: «Ce avimm’ ‘a sulleva’ / cu ‘e bbraccia noste».