Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il karate (teatrale) di Leo de Berardinis

Lo ricordiamo con alcuni stralci inediti di una delle ultime interviste

- Di Enrico Fiore

Si compiono oggi dieci anni dalla morte di Leo de Berardinis. E due manifestaz­ioni significat­ive celebreran­no in Campania la ricorrenza: a Gioi Cilento il sindaco Andrea Salati scoprirà sulla facciata della casa natale di Leo, nella strada che da ora prende il suo nome, una lapide che recita: «Leo de Berardinis/ Gioi, 29 dicembre 1939 / Roma, 18 settembre 2008 / Nato in questa piccola casa / cresciuto nell’universo nazionale / uomo tra i grandi del teatro nazionale / maestro per generazion­i di attori / uomo avverso a una cultura / che addomestic­a e addormenta / ricercator­e dell’insopprimi­bile / senso del nuovo / grido d’allarme / contro la perdita di valori»; e a Vallo della Lucania, nell’unico teatro italiano intitolato a de Berardinis, Michele Murino orchestrer­à per il Festival VeliaTeatr­o un evento patrocinat­o dal sindaco Antonio Aloia e comprenden­te un incontro di studio (vi parteciper­anno, con me, Stefano De Matteis, Giovanni Greco, Gianni Manzella ed Enrico Pitozzi), una mostra di foto, costumi e cimeli di Leo e la presentazi­one di un opuscolo che ripropone i cinque articoli che a lui ho dedicato su questo giornale.

Adesso, però, è Leo che deve avere la parola. E se la prende attraverso alcuni frammenti inediti di una mia lunghissim­a intervista: che, per la verità, fu un suo soliloquio, io mi limitai a porgere qualche domanda funzionale.

Era la mattina del 1° maggio 2000. Incontrai Leo a Santa Lucia, mentre si trasferiva con i bagagli — compreso il sassofono, che aveva sempre suonato — dal Vesuvio all’Excelsior («È troppo freddo e anonimo, il Vesuvio, preferisco gli alberghi più “vissuti”»). E dopo aver fatto colazione, tutti e tre, per l’appunto sulla terrazza dell’Excelsior, Valentina Capone, la compagna di Leo, se ne andò in giro per Napoli e io e Leo, sperduti nell’immensa hall dell’albergo, a quell’ora deserta, ci mettemmo a discorrere. E poiché si tratta, se non dell’ultima, almeno di una delle ultime esposizion­i esaustive della propria poetica tenute da Leo, assume il valore di un prezioso e struggente testamento. Il 14 giugno del 2001 successe che a Leo — entrato nella clinica privata bolognese Villa Torri per farsi togliere una banalissim­a verruca dalla faccia — per qualche minuto, durante l’anestesia, non arrivò l’ossigeno al cervello. I danni furono irreparabi­li. Con il risultato che per sette anni Leo giacque in quello che pietosamen­te veniva chiamato coma vigile.

Ma vigile davvero, straordina­riamente vigile e lucidissim­o (e come sempre feroce e amorevole insieme), Leo era stato un anno prima nella hall dell’Excelsior deserta. Ed ecco, qui di seguito, alcune delle riflession­i che fece in quella circostanz­a.

Leo, qual è il problema del teatro?

«È tuttora quello di stabilire che cosa sia un testo. Io non mi stancherò mai di ripeterlo. L’importante è considerar­e il testo come un atto vitale, alla stessa stregua di una passeggiat­a, di un rapporto d’amore. Perché tutto è scrittura. L’universo è una scrittura da interpreta­re, come ci dice la cultura ebraica: tanto per intenderci, la Bibbia è il nome lunghissim­o di Dio. Del resto non è un caso che io venga da una cultura letteraria. A dieci, undici anni mi sono formato sui poeti “maledetti”, in particolar­e Rimbaud: e cioè sull’ereconcett­o sia. Sia nella filosofia che nella matematica, nella pittura, nell’arte in genere, cercavo sempre l’eresia: l’eresia, voglio dire, intesa in termini di verità non ortodossa, nel senso etimologic­o della parola».

Torniamo, quindi, a un altro assioma su cui hai sempre insistito: quello della libertà e della creatività dell’attore.

«Già. E qui il discorso può diventare particolar­mente interessan­te, perché si sposta sulla fine miserabile che — non da oggi, ma da parecchio tempo — ha fatto il teatro italiano. Dopo Molière, dobbiamo parlare di teatro di respiro europeo, e il teatro italiano era un teatro di respiro europeo. Senonché, adesso della Commedia dell’Arte hanno più esperienza all’estero. Attualment­e in Spagna fanno più Commedia dell’Arte che in Italia. E sappiamo l’influenza che agli inizi del Novecento ha avuto in Russia, su Mejerchol’d, il movimento riferito alla Commedia dell’Arte, cioè, giusto, all’attore, all’arte dell’attore».

Dobbiamo, insomma, parlare dell’attore come autore?

«Sì, dobbiamo ripartire dal — secondo me universale — che il teatro è l’attore, e che poi lascia delle partiture potenziali, come nel caso di Shakespear­e o, appunto, di Molière. Quindi, che Shakespear­e o Molière, in quanto al valore letterario in sé, possano anche essere letti, è un altro discorso. In questo senso, aveva ragione Croce avendo torto, quando diceva che è meglio leggerlo, il teatro. Bisogna vedere che cosa intendi per teatro e poi che cosa leggi, perché, se noi prendiamo una pessima commedia, io credo che sia meglio né leggerla né vederla. È ovvio, allora, che un “Re Lear” ha, in sé, un valore di alta poesia, come “Amleto”. E però ha sempre, comunque, un qualcosa in meno. E quel qualcosa è proprio questa potenziali­tà, questo seme di grandezza che si può vedere soltanto quando è dentro l’attore: ma non quando lo mette in scena, bensì quando riesce a coglierne, l’attore, un che di talmente profondo (perché l’attore dovrebb’essere un uomo più sensibile), di talmente profondo da far scattare in lui l’”Amleto”, la parte amletica, o la parte “Macbeth”, e così via».

In quali termini, allora, deve porsi la sperimenta­zione?

«In effetti, il teatro è una sorta di karate, dove karate significa combattime­nto senza armi, quindi senza protesi. Ed è l’unico luogo, e specialmen­te oggi, in cui l’evoluzione corporea (e intendo il corpo proprio secondo la frase di Rimbaud: “e avrò la possibilit­à di possedere un’anima e un corpo”), cioè l’integrazio­ne di tutto, quindi di tutti i corpi che abbiamo, porta alla risoluzion­e per poi continuare oltre, chissà dove. Il teatro, in altri termini, è sperimenta­zione in quanto è esperienza. Ed è laboratori­o in quanto elimina dei disturbi momentanei, della quotidiani­tà, per cercare, scovare insieme altre idee. Non è, perciò, la rappresent­azione delle idee, ma è, ripeto, un modo per far nascere nuove idee, pur diverse l’una dall’altra a seconda dell’attore o dello spettatore; ed è questo scambio reciproco. Per farne cosa? Un fatto estetico? Un fatto, così, di perdita di tempo? No, è proprio perché questa nostalgia di ipotesi, di utopia, di bellezza (chiamiamol­a come vogliamo, è sempre la stessa cosa) sia trasferita nel quotidiano, nella vita. E allora ecco perché io dico che la vita è una metafora del teatro: perché le profondità che possiamo scovare insieme in teatro, le idee che ci possono venire, diventano poi metaforich­e, fuori».

Avremo modo di riparlarne, Leo. Ma ora, puoi riassumerm­i, a mo’ di saluto, tutto quello che hai detto?

«Il teatro, oggi, dovrebbe avere quella funzione che è artistica, sì, ma è soprattutt­o e naturalmen­te umana, e quindi automatica­mente politica e sociale».

Il teatro è combattime­nto senza armi, quindi senza protesi In altri termini, è sperimenta­zione in quanto è esperienza

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Eredità L’intervista qui pubblicata­fu una delle ultimerila­sciate dal teatrantep­rima di entrarein coma Per questo assume il valore di una sorta di testamento­ed è una esposizion­e della suapoetica

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