Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il karate (teatrale) di Leo de Berardinis
Lo ricordiamo con alcuni stralci inediti di una delle ultime interviste
Si compiono oggi dieci anni dalla morte di Leo de Berardinis. E due manifestazioni significative celebreranno in Campania la ricorrenza: a Gioi Cilento il sindaco Andrea Salati scoprirà sulla facciata della casa natale di Leo, nella strada che da ora prende il suo nome, una lapide che recita: «Leo de Berardinis/ Gioi, 29 dicembre 1939 / Roma, 18 settembre 2008 / Nato in questa piccola casa / cresciuto nell’universo nazionale / uomo tra i grandi del teatro nazionale / maestro per generazioni di attori / uomo avverso a una cultura / che addomestica e addormenta / ricercatore dell’insopprimibile / senso del nuovo / grido d’allarme / contro la perdita di valori»; e a Vallo della Lucania, nell’unico teatro italiano intitolato a de Berardinis, Michele Murino orchestrerà per il Festival VeliaTeatro un evento patrocinato dal sindaco Antonio Aloia e comprendente un incontro di studio (vi parteciperanno, con me, Stefano De Matteis, Giovanni Greco, Gianni Manzella ed Enrico Pitozzi), una mostra di foto, costumi e cimeli di Leo e la presentazione di un opuscolo che ripropone i cinque articoli che a lui ho dedicato su questo giornale.
Adesso, però, è Leo che deve avere la parola. E se la prende attraverso alcuni frammenti inediti di una mia lunghissima intervista: che, per la verità, fu un suo soliloquio, io mi limitai a porgere qualche domanda funzionale.
Era la mattina del 1° maggio 2000. Incontrai Leo a Santa Lucia, mentre si trasferiva con i bagagli — compreso il sassofono, che aveva sempre suonato — dal Vesuvio all’Excelsior («È troppo freddo e anonimo, il Vesuvio, preferisco gli alberghi più “vissuti”»). E dopo aver fatto colazione, tutti e tre, per l’appunto sulla terrazza dell’Excelsior, Valentina Capone, la compagna di Leo, se ne andò in giro per Napoli e io e Leo, sperduti nell’immensa hall dell’albergo, a quell’ora deserta, ci mettemmo a discorrere. E poiché si tratta, se non dell’ultima, almeno di una delle ultime esposizioni esaustive della propria poetica tenute da Leo, assume il valore di un prezioso e struggente testamento. Il 14 giugno del 2001 successe che a Leo — entrato nella clinica privata bolognese Villa Torri per farsi togliere una banalissima verruca dalla faccia — per qualche minuto, durante l’anestesia, non arrivò l’ossigeno al cervello. I danni furono irreparabili. Con il risultato che per sette anni Leo giacque in quello che pietosamente veniva chiamato coma vigile.
Ma vigile davvero, straordinariamente vigile e lucidissimo (e come sempre feroce e amorevole insieme), Leo era stato un anno prima nella hall dell’Excelsior deserta. Ed ecco, qui di seguito, alcune delle riflessioni che fece in quella circostanza.
Leo, qual è il problema del teatro?
«È tuttora quello di stabilire che cosa sia un testo. Io non mi stancherò mai di ripeterlo. L’importante è considerare il testo come un atto vitale, alla stessa stregua di una passeggiata, di un rapporto d’amore. Perché tutto è scrittura. L’universo è una scrittura da interpretare, come ci dice la cultura ebraica: tanto per intenderci, la Bibbia è il nome lunghissimo di Dio. Del resto non è un caso che io venga da una cultura letteraria. A dieci, undici anni mi sono formato sui poeti “maledetti”, in particolare Rimbaud: e cioè sull’ereconcetto sia. Sia nella filosofia che nella matematica, nella pittura, nell’arte in genere, cercavo sempre l’eresia: l’eresia, voglio dire, intesa in termini di verità non ortodossa, nel senso etimologico della parola».
Torniamo, quindi, a un altro assioma su cui hai sempre insistito: quello della libertà e della creatività dell’attore.
«Già. E qui il discorso può diventare particolarmente interessante, perché si sposta sulla fine miserabile che — non da oggi, ma da parecchio tempo — ha fatto il teatro italiano. Dopo Molière, dobbiamo parlare di teatro di respiro europeo, e il teatro italiano era un teatro di respiro europeo. Senonché, adesso della Commedia dell’Arte hanno più esperienza all’estero. Attualmente in Spagna fanno più Commedia dell’Arte che in Italia. E sappiamo l’influenza che agli inizi del Novecento ha avuto in Russia, su Mejerchol’d, il movimento riferito alla Commedia dell’Arte, cioè, giusto, all’attore, all’arte dell’attore».
Dobbiamo, insomma, parlare dell’attore come autore?
«Sì, dobbiamo ripartire dal — secondo me universale — che il teatro è l’attore, e che poi lascia delle partiture potenziali, come nel caso di Shakespeare o, appunto, di Molière. Quindi, che Shakespeare o Molière, in quanto al valore letterario in sé, possano anche essere letti, è un altro discorso. In questo senso, aveva ragione Croce avendo torto, quando diceva che è meglio leggerlo, il teatro. Bisogna vedere che cosa intendi per teatro e poi che cosa leggi, perché, se noi prendiamo una pessima commedia, io credo che sia meglio né leggerla né vederla. È ovvio, allora, che un “Re Lear” ha, in sé, un valore di alta poesia, come “Amleto”. E però ha sempre, comunque, un qualcosa in meno. E quel qualcosa è proprio questa potenzialità, questo seme di grandezza che si può vedere soltanto quando è dentro l’attore: ma non quando lo mette in scena, bensì quando riesce a coglierne, l’attore, un che di talmente profondo (perché l’attore dovrebb’essere un uomo più sensibile), di talmente profondo da far scattare in lui l’”Amleto”, la parte amletica, o la parte “Macbeth”, e così via».
In quali termini, allora, deve porsi la sperimentazione?
«In effetti, il teatro è una sorta di karate, dove karate significa combattimento senza armi, quindi senza protesi. Ed è l’unico luogo, e specialmente oggi, in cui l’evoluzione corporea (e intendo il corpo proprio secondo la frase di Rimbaud: “e avrò la possibilità di possedere un’anima e un corpo”), cioè l’integrazione di tutto, quindi di tutti i corpi che abbiamo, porta alla risoluzione per poi continuare oltre, chissà dove. Il teatro, in altri termini, è sperimentazione in quanto è esperienza. Ed è laboratorio in quanto elimina dei disturbi momentanei, della quotidianità, per cercare, scovare insieme altre idee. Non è, perciò, la rappresentazione delle idee, ma è, ripeto, un modo per far nascere nuove idee, pur diverse l’una dall’altra a seconda dell’attore o dello spettatore; ed è questo scambio reciproco. Per farne cosa? Un fatto estetico? Un fatto, così, di perdita di tempo? No, è proprio perché questa nostalgia di ipotesi, di utopia, di bellezza (chiamiamola come vogliamo, è sempre la stessa cosa) sia trasferita nel quotidiano, nella vita. E allora ecco perché io dico che la vita è una metafora del teatro: perché le profondità che possiamo scovare insieme in teatro, le idee che ci possono venire, diventano poi metaforiche, fuori».
Avremo modo di riparlarne, Leo. Ma ora, puoi riassumermi, a mo’ di saluto, tutto quello che hai detto?
«Il teatro, oggi, dovrebbe avere quella funzione che è artistica, sì, ma è soprattutto e naturalmente umana, e quindi automaticamente politica e sociale».
Il teatro è combattimento senza armi, quindi senza protesi In altri termini, è sperimentazione in quanto è esperienza