Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Marisa Albanese: così ho usato l’arte per aiutare i migranti bloccati a Lampedusa
Dopo il workshop, in arrivo borse di studio
Marisa Albanese ha la consapevolezza del rischio che corre: cadere nella retorica, per un’artista che si confronta con il tema dei migranti, è ormai moneta corrente. L’arte contemporanea più patinata e glamour negli ultimi anni si è impadronita con avidità del fenomeno, ma il più delle volte lo ha solo «normalizzato» o «estetizzato», senza capirlo davvero.
Per l’artista napoletana è un’altra storia. Marisa Albanese è andata a Lampedusa per due lunghi soggiorni, poi ha continuato a lavorare anche a Napoli con lo stesso metodo. In tutti e due i casi si è trattato di workshop con e per i migranti, perché l’artista — che ha creato le donne guerriere dotate di elmo per la metropolitana di Quattro giornate — è convinta che l’arte offra un linguaggio universale adatto alla comunicazione tra culture. Ma come è iniziato questo singolare lavoro? Marisa Albanese lo spiegherà lunedì alle 18 alla Feltrinelli di Napoli, con Mariella Pandolfi e Andrea Viliani, quando presenterà una sorta di diario intimo che lei ha deciso di rendere pubblico (Quaderno di Lampedusa, edizioni Postmedia). Il raffinato libretto fa parte del progetto «Il seme della libertà» destinato a finanziare borse di studio di formazione per un gruppo di migranti, realizzate con i provenienti della vendita di trenta Quaderni, numerati e firmati con trenta disegni originali.
«Tutto è cominciato qualche tempo fa», ricorda Marisa. «Ho iniziato a prestare attenzione allo stato di attesa, alle vite bloccate di queste persone, dentro un elemento che dovrebbe essere naturale, ovvero lo spostamento. Così ho deciso di andare a Lampedusa, la prima volta nel 2016, per provare a utilizzare il linguaggio artistico e fare esprimere ai migranti le loro emozioni». Quale accoglienza ha trovato? «All’inizio diffidenza. Molti artisti prima di me sono andati lì, nei centri di accoglienza, hanno realizzato opere e poi sono andati via senza che nulla cambiasse. Io ho invece provato a far lavorare loro, i migranti, in prima persona». Dopo la diffidenza, si sono aperti? «Sì, dopo il primo impatto tutto è cambiato. Ho lavorato per lo più con persone dai 16 ai 50 anni. Mi hanno raccontato dei loro viaggi durati in molti casi lunghi anni. Delle soste forzate in Libia, dove in tanti hanno avuto esperienze dolorose, tragiche. Le donne erano sempre in retroguardia, non partecipavano». Come mai pensare a borse di studio? «Perché alcuni, soprattutto ragazzi, hanno rivelato doti eccezionali. Hanno raggiunto un modo di lavorare fluido e naturale. È giusto che possano proseguire nel campo delle arti visive».
Cosa c’è nel Quaderno di Lampedusa? Non si tratta certo di un racconto organico della quotidianità di Marisa Albanese, piuttosto è una raccolta rapsodica di impressioni e immagini, appunti e fotografie per restituire al lettore uno stato d’animo al di là della nuda cronaca, che pure non manca. E soprattutto appaiono loro, i migranti, «esausti di niente», in perenne attesa di un futuro che ormai credevano a portata di mano ma che invece stenta ad arrivare. «È quel che ho annotato man mano che si svolgeva il laboratorio, a un certo punto diventato clandestino. I ragazzi uscivano da un buco nella recinzione per venire a partecipare. Ricordo un uomo di una certa età che non parlava nessuna lingua se non il suo dialetto ma che disegnava benissimo. Un altro veniva e osservava, senza mai rompere il suo silenzio: a un certo punto, dopo vari incontri, ci ha raccontato la sua storia fatta di difficoltà e dolore. Molti, specie quelli appena arrivati, non sapevano nemmeno dove si trovavano. Solo dopo molti mesi hanno capito di essere in Sicilia».
Com’è la loro condizione nei centri di accoglienza? «All’inizio sono felici di essere in Italia, poi cadono nello sconforto perché non accade nulla, perché non riescono a raggiungere i loro parenti nel resto d’Europa... Quelli che ho conosciuto a Napoli, invece, erano più difficili, più diffidenti... ma anche con loro sono riuscita a instaurare una relazione. Ecco, il mio progetto è tutto basato sulla messa in campo di relazioni». Che tipo di persone hanno partecipato? «Anche laureati, gente che faceva lavori di un certo livello e che poi ha perso tutto. In generale sono persone forti, si indeboliscono poi durante l’attraversamento dei vari paesi. Tutti noi dovremmo capire che l’incontro con i migranti ci arricchisce, come è sempre successo quando culture diverse si sono ritrovate insieme».
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Laboratorio Alcuni ragazzi hanno raggiunto risultati eccellenti, con un metodo naturale e fluido